Mondovì e il Monregalese in lotta per la libertà

A 70 anni dalla Liberazione – 1943 – 1945

Sono qui raccolti gli articoli apparsi sul nostro settimanale  fra il marzo e il maggio 2005 in occasione del 60º anniversario della Liberazione. Sono ripercorsi in sintesi i fatti accaduti fra il settembre 1943 e l’aprile 1945 in Mondovì e nel Monregalese: in una zona cioè dove la resistenza all’occupazione nazifascista e il coinvolgimento delle popolazioni furono particolarmente significativi, qualunque cosa ne dicano oggi i “negazionisti” ad oltranza. Pur correndo il rischio dell’incompletezza e senza presumere di competere con la profondità dei numerosi libri scritti sull’argomento, si confida che queste pagine possano tornare utili ad un ripasso e ad un inquadramento di avvenimenti lontani: a cominciare da quelli che, dalla nostra periferia, hanno contribuito a fondare le condizioni di libertà e democrazia in cui ci muoviamo. Una libertà, una democrazia sempre perfettibili, ma da non compromettere con smemoratezze o con avventate prese di distanza e con stravolgimenti della Costituzione.
Oltre che di immagini e di testi immediatamente evocativi, ci si è serviti di vari libri, studi e testimonianze; in particolare di “La guerra in casa” di Albino Morandini (Il Belvedere, 1985), di “Mondovì in guerra e in pace”, di Morandini – Billò (CEM, 2000), alla cui vasta bibliografia si rimanda; e del cd e dvd “Pro-memoria” a cura di Carlo Regis e Paolo Gregorio, che contiene, a corredo dei manifesti d’epoca, una dettagliata cronologia.

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> Scopri qui gli itinerari partigiani del Monregalese

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1 - CONTRO IL CAOS

La guerra disastrosa, la caduta del fascismo, l’Armistizio, l’occupazione nazista, Salò...
Dal 25 luglio all’ 8 settembre ‘43

Estate 1943 - Primavera 1945. Quanti accadimenti, in meno di due anni; quanti dilemmi e scelte drammatiche; quanti pericoli e sofferenze per segnare un distacco dalla guerra sbagliata voluta dal fascismo, per contrastare la vendicativa occupazione tedesca appoggiata dalla Repubblica di Salò e per ritrovare una dignità di popolo libero!
Pur volendo qui soffermarci soprattutto sugli ultimi mesi di lotta, dobbiamo agganciarci ai fatti precedenti: la guerra disastrosa sui vari fronti; il 10 luglio lo sbarco angloamericano in Sicilia e la lenta avanzata verso il nord; il 25 luglio ‘43 la caduta e l’arresto di Mussolini per ordine del re, nell’euforia di un solo giorno per l’illusione che la guerra cessasse insieme al fascismo. Crollate le “incrollabili certezze” , gli italiani disincantati si aggrappavano all’attesa impaziente di una pace ancora lontana.
E poi... i quarantacinque giorni di Badoglio col suo governo di militari e burocrati, col suo ambiguo annuncio che la guerra continuava, mentre i nazisti, già nostri alleati, si apprestavano a trattarci da traditori.
Ma già il 26 luglio, da Cuneo, Duccio Galimberti lucidamente ribatteva: “La guerra continua sì, ma fino alla cacciata dell’ultimo tedesco”.
Esercito nel caos

Tanti i riflessi anche da noi di quegli eventi, di quegli stati d’animo. A Cuneo un prefetto non più fascista ma badogliano; il garessino avv. Fazio preside della Provincia; a Mondovì l’avv. Stefano Garelli commissario prefettizio: tutti legati al vecchio ceppo liberal-giolittiano. Poi, l’8 settembre, l’Armistizio chiesto agli angloamericani, e una nuova breve esultanza.
Di colpo i nostri alleati tedeschi, pronti da tempo all’invasione, presero infatti a trattare soldati e popolo italiano da traditori ed a porre un drastico aut aut: “O lealtà alla Germania, o consegna delle armi”. “Armistizio” divenne allora sinonimo di confusione. Il Regio Esercito fu lasciato nel caos, senza ordini, se non un ambiguo: “Reagire soltanto se attaccati” .
Dal sud della Francia le tre divisioni della IV Armata che ancora si trovavano oltre il Var accelerarono il rientro da Tenda e da altri valichi e si dispersero nel Cuneese e nel Monregalese.
Dal governo e dai comandi italiani solo balbettii sul da farsi, nonostante le convulse telefonate. “La Stampa” intanto parlava di “resa ineluttabile” e di “guerra finita” ; e la “Gazzetta del Popolo” rilanciava “a tutti gli italiani” un appello dei rispuntati partiti politici.
Ma i nazisti infuriati avanzavano dalla Lombardia e dall’Alessandrino; e a poco servivano i patetici picchetti, gli sbarramenti improvvisati qua e là.
Sbandamento
“Le nostre armi nulla possono contro forze preponderanti – balbettavano i capi – Restate se volete, oppure tornate alle vostre case”. Tutti a casa? Una parola! Comunque un terzo delle truppe fece fagotto; si liberò delle logore divise e cercò panni borghesi. Arrendersi ai tedeschi – non si tardò a capirlo – significava invece deportazioni impietose in lontani lager per i soldati sorpresi in patria o sui fronti francese, jugoslavo, greco. Significò internamento per 600 mila militari, tra cui una sessantina di monregalesi. E fame freddo, angherie, malattie, morte. Per la divisione “Acqui” che a Cefalonia non volle arrendersi fu un eccidio spaventoso; e non fu il solo.

Arrivano i tedeschi
La voce che una colonna tedesca stava giungendo da Ceva seminò il panico alla fiera del Santuario. Anche dal campo d’aviazione in Borgo Aragno ci fu un fuggi fuggi. Materiali dell’aeroporto vennero occultati in cascine tra Piozzo e Carrù. A sera la gente svuotava i magazzini militari. La cassa della IV Armata, custodita dall’Intendente gen. Operti, subiva vicende rocambolesche. Faceva gola a troppi. AdOrmea il 10 settembre alcune centinaia di nostri soldati tentarono di sbarrare la strada ai nazisti in due ore di scontro cruento; e fu uno degli episodi più generosi e rimarchevoli.
Tornati liberi per qualche giorno, i quotidiani mandavano incitamenti ad una resistenza ardua da organizzare. “Come sul Piave – scrivevano –, oggi ha inizio la vera lotta della libertà contro i fascisti di dentro e di fuori”.
Il torrente di sbandati continuava a dilagare. A Mondovì la stazione ferroviaria all’Altipiano era un porto di mare. La Cittadella e la caserma di Carassone si svuotavano degli ultimi soldati; il Genio di S. Anna e il Campo d’aviazione continuavano a svuotarsi di materiali. Nel Distretto di Piazza, ad aspettare i tedeschi, restava un solo graduato, tirato a sorte. E i tedeschi giunsero da Fossano e Trinità l’11 settembre. Un pugno d’uomini con qualche autoblindo occupò i punti nevralgici delle città, della provincia. Tra i primi loro provvedimenti a Mondovì, la sostituzione del commissario prefettizio: non più l’avv. Stefano Garelli, ma il 73enne Annibale Monferino, fascista della prim’ora e ligio alle nuove autorità: nazisti e fascisti “repubblicani”.
Il 12 settembre paracadutisti tedeschi liberarono infatti Mussolini dalla prigionia sul Gran Sasso e lo portarono a Monaco da Hitler, per porre le basi della Repubblica Sociale di Salò e per un esercito di appoggio a quello nazista.
In quello stesso giorno si riuniva a Mondovì un gruppetto d’antifascisti: Giovanni e Piero Garelli, vicini al Partito d’Azione, il giudice Martelli, antifascista da sempre, l’avv. Egidio Fazio, l’ing. Giuseppe Fulcheri, liberali. Ottennero la pronta adesione di esponenti dei partiti popolare e comunista, e quella di Primo Silvestrini, industriale ceramico di spiriti socialisti. Prese così vita un gruppo interpartitico secondo le indicazioni di un Comitato di Liberazione Nazionale che da Roma aveva lanciato un appello alla lotta e alla resistenza. Si formò pure un CLN piemontese, che inviò poi l’avv. Guido Verzone ad incontrare i monregalesi, come pure Duccio Galimberti, il carrucese gen. Perotti, il col. Ghiglia.

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2 - INIZIA LA RESISTENZA

Primi gruppi e prime lotte nelle Valli, in Langa, in Pianura. Boves in fiamme

Il mondo cattolico non restò a guardare. Specie don Beppe Bruno, curato a Mondovì Borgato, uomo di chiesa e d’azione, seppe trasmettere slanci. Con un gruppo di “Azione e Ordine” e di fedelissimi parrocchiani stabilì contatti e fornì aiuti. Anche di questi fermenti si giovarono i primi nuclei di ribelli in città e in montagna. Poca cosa, all’inizio: reduci da vari fronti, anche dalla Russia; soldati di regioni lontane legati al giuramento al re, abituati ad un residuo d’organizzazione militare condito con parecchio spontaneismo; antifascisti da sempre o da ieri, studenti e operai renitenti ai bandi con cui la repubblica di Salò cominciò a chiamare minacciosamente alle armi a fianco dei nazisti. Le nostre valli dal Tanaro al Pesio, le Langhe, le pianure furono tra le prime a veder crescere la ribellione al nord. Si raccolsero sbandati, si formarono gruppi, si trafugarono armi, si tentarono i primi colpi. E da Cuneo le SS del gen. Peiper reagirono fin da subito con implacabile ferocia. Per indurre i ribelli di Ezio Aceto e Ignazio Vian, nascosti nella zona della Bisalta, a costituirsi, i tedeschi minacciarono rappresaglie a Peveragno e Chiusa, prelevarono ostaggi, poi - il 19 settembre - reagirono a un colpo di mano col massacro e l’incendio di Boves: 23 civili uccisi, centinaia di case arse. Un terribile avvertimento alle popolazioni: i civili avrebbero pagato ovunque per le azioni dei ribelli. I bagliori dell’incendio di Boves sollevarono orrore, smarrimento e molte discussioni, nella consapevolezza che, pur mettendocela tutta, non era facile conciliare prudenza e guerriglia.
Intanto calavano i primi freddi, e i gruppi di “ribelli” avevano esigenze logistiche e di rifornimento. Sul finire di settembre i nuclei di val Casotto crebbero in consistenza e attuarono i primi gagliardi colpi di mano per rifornirsi d’armi ai depositi del Genio e nelle caserme. Folco Lulli, Colantuoni, Italo Cordero, Paolo Rossi (Ceschi) erano lassù le figure emergenti. Agivano in accordo col gen. Perotti e col sostegno d’industriali e di preti della zona. Ma affiorarono presto disaccordi tra i fedeli al re, come Ceschi, e i “civili” più politicizzati, come Lulli, tanto che un nucleo di questi ultimi si trasferì al rifugio Navonera. Diversità di vedute, di mentalità, di esperienze esistevano pure con altre bande, tuttavia si tennero vari incontri di coordinamento, pur in un quadro d’autonomia operativa. Al gen. Operti si chiese di intervenire con la cassa della IV Armata e il CLN lo si nominò Comandante Militare. Ma egli si fidava poco della eterogeneità delle bande e dei partiti. Versò al CLN piemontese solo una parte del “tesoro” chiedendo che servisse al “finanziamento del movimento armato e a null’altro”; e dopo venti giorni il CLN preferì affidarsi al gen. Perotti per la guida militare del movimento partigiano.

Drastici bandi
Già a fine ‘43 si capì che la fine della guerra era ancora lontana. Gli Alleati erano fermi a Cassino, e la nuova Repubblica Sociale chiamava alle armi le classi 1923, 24, 25. “E tu cosa fai?” chiedevano i manifesti di Boccasile, e promettevano che l’esercito nuovo avrebbe liberato l’Italia dai conquistatori anglosassoni. Ma non fu facile a quei fiancheggiatori dei nazisti trovare giovani, armi e divise. Parecchi giovani di leva si nascondevano, altri si univano ai ribelli. La “Repubblica” le tentò tutte per stanarli: blandizie, rastrellamenti, arresti di parenti, mentre cresceva l’ira sorda della gente. Appena un terzo rispose all’appello, qualcuno per convinzione, gli altri pronti a squagliarsi appena possibile.
La banda di Valcasotto si rimpolpò di renitenti; si diede una “Volante” agli ordini di Reno Sciolla e Italo Cordero specialisti in colpi a caserme e posti di blocco che scatenavano reazioni o determinavano compromessi fra gruppi. Al Borgato don Beppe Bruno e Biasòt e Modesta Turco erano riferimenti fidati per chi fuggiva verso i monti (nascondevano, tra gli altri, l’avventuroso e audace maquis francese Louis Chabas, detto Lulù. Don Beppe procurava anche i caratteri e la macchina da stampa per documenti e notiziari clandestini composti e tirati da Lidio Bassignana, Altri monregalesi s’aggiungevano in val Pesio alla banda di Cosa e Bertoldo, che faceva puntate in pianura per armi e viveri. Dai pressi della Bisalta, Dunchi, Aceto e Vian attuavano beffarde incursioni, facendo saltare tra l’altro il viadotto di Vernante.
Tra i giovani che avevano aderito alla Repubblica, il primo monregalese a cadere fu il diciannovenne Emilio Cordero di Montezemolo. Accadde a un posto di blocco a Cuneo, sotto il fuoco di tre partigiani. Sul fronte opposto, un altro Montezemolo – Giuseppe Cordero Lanza, uno dei capi della Resistenza romana – nel marzo ‘44 sarebbe stato fra le 335 vittime delle Fosse Ardeatine. Lacerazioni che, in una guerra civile, passano all’interno delle famiglie e di un popolo.
Durissimo l’inverno del ‘43, sia per i “ribelli” sui monti sia per le popolazioni nei paesi e in città. Pesava il tallone degli occupanti, e preoccupava la situazione economica e annonaria. Le industrie mancavano di ordini, materiali, energia; l’esosa borsa nera dilagava; gli sfollati superavano i duemila. Offerte di lavoro venivano quasi solo dalla Germania, ma pochi se ne lasciavano allettare. Spacci, gruppi ed enti di assistenza facevano l’impossibile, ma la miseria era tanta. Il vescovo mons. Briacca si spingeva negli angoli più remoti della diocesi per rincuorare, per scongiurare rappresaglie e vendette, e anche il commissario prefettizio Annibale Monferino tentava impossibili mediazioni.

Colpi di mano e atroci rappresaglie
Il 27 dicembre ‘43 un colpo di mano studiato da Cosa, Dunchi e Aceto all’Aeroporto di Borgo Aragno in cerca di benzina fece tra i tedeschi cinque prigionieri e tre vittime sul ponte del Pesio, e scatenò l’ira nazista su Alma, Pradeboni e Bisalta, dov’erano gli uomini di Vian. Le rappresaglie continuarono a vasto raggio: il 9 gennaio a Trinità, con spari tra la gente uscita da messa grande (3 morti, 11 feriti), il giorno dopo a Peveragno sulla gente al mercato (una trentina gli uccisi, molti i feriti). In val Pesio, dopo l’uccisione di un anziano, la banda Cosa per evitare guai alla gente si ritirò sulla costa della Bisalta. Ed a Pradeboni s’incontrarono i capi della lotta dura ed amara: Cosa, Galimberti, Verzone, Testori, Vian, Dunchi, Aceto...
Il 14 gennaio ‘44, nuovi orrori al Pellone di Miroglio: undici vittime tra ribelli e montanari sorpresi da un tiro implacabile; e in fiamme la borgata dei Bergamini, dove da pochi giorni si era insediato Martini Mauri, deciso a entrare più nel vivo della lotta ma costretto a salire al Prel. Don Beppe Bruno, che si adoperò a seppellire i morti del Pellone e a far ricoverare di nascosto i feriti, fu denunciato da una spia e riuscì a salvarsi appena in tempo dall’arresto. Manifesti affissi ovunque presentarono quegli eccidi come avvertimento a consegnare tutte le armi e a non collaborare coi ribelli.
In quell’inizio di 1944 le bande “Autonome” di val Pesio e val Casotto furono tra le prime a stabilire contatti con gli Alleati e ad ottenere aviolanci di armi e materiali, e poi anche l’invio di missioni di collegamento, non senza suscitare invidie nelle bande più politicizzate.

La “Repubblica” chiama alle armi, ma...

Intanto altri duri bandi firmati “Graziani” richiamavano le classi 1921-22 e il primo semestre 1926 nell’esercito repubblicano di Salò; e provocavano un esodo di giovani verso i monti, specie in val Casotto, dove si era impreparati a ospitare e utilizzare quell’afflusso. In Cittadella a Piazza giungeva un centinaio di SS italiane: erano nostri soldati già internati in Germania che avevano finito per piegare il capo pronti ad eclissarsi appena possibile. L’audace Reno Sciolla, capo della Volante di Casotto, nel tentativo di farne fuggire una settantina, ci lasciò la vita presso la Cittadella, la notte del 18 gennaio.
Il giorno dopo un terzo di ribelli della val Casotto, secondo accordi non privi di ambiguità, scese in divisa da alpino e con mostrine tricolori a occuparsi di servizi d’ordine tra Fossano e Mondovì, con lo scopo inconfessato di agevolare prelievi di materiali nelle caserme da parte degli amici partigiani e di dirottare in montagna reclute appena giunte al Distretto. Un doppio gioco rischioso, che lasciava perplesso più d’uno. Tra i perplessi, il maggiore Martini Mauri che, dopo la vita mortificata in val Maudagna, aveva raggiunto – con Lulli a altri trentatré – la val Casotto. Lì, accolto con freddezza da Ceschi, non tardò ad assumere, per le sue doti e la sua esperienza, il comando della valle.
E non appena Mauri ebbe in pugno la situazione, Mauri inviò Lulli e Gaglietto a richiamare in valle la squadra scesa “per servizio” a Mondovì (quella di Fossano aveva insospettito i tedeschi e ne aveva ricavato arresti e deportazioni). Dopo di ciò, Mauri, dal comando situato nel Castello-certosa, rivide tutta l’organizzazione della banda e stese, sul modello militare, un piano organico che teorizzava una lotta mobile, d’attacco, con solide basi in valle. Il rude attore toscano Folco Lulli fu innalzato a capo di Stato Maggiore, e Mario Bogliolo ebbe l’incarico di addestrare i nuovi venuti.
Il CLN insisteva perché tutte la valli si tenessero tatticamente collegate: Vian tra Corsaglia e Maudagna, Domenico Franco in val Ellero, Cosa in val Pesio, Mauri a Casotto. In un incontro a Valloriate, Dante Livio Bianco aveva anche proposto per le bande un più deciso impegno politico a cominciare dal ripudio della monarchia; ma aveva raccolto scarse adesioni, specie dai capi di estrazione militare. C’era stato accordo almeno sulla necessità di aviolanci anche per le Formazioni Giustizia e Libertà del Cuneese.
Attive e vigili, le bande di val Pesio e val Ellero scendevano ora a sabotare ponti e ferrovie. E a fine febbraio accoglievano in val Pesio anche il gruppetto di Dino Giacosa e Aldo Sacchetti staccatosi dalle Formazioni GL per disparità di vedute sull’immediato. Tra Cosa e Giacosa, già confinato dai fascisti a Ventotene, l’intesa fu immediata: prioritaria la lotta agli occupanti e prematura l’adesione a partiti.

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3 - PRIMAVERA ’44: ASPRE BATTAGLIE

Nelle valli Casotto e Pesio

In marzo ci fu una nuova ondata di rastrellamenti, con scontri in val Tanaro e alla colla di Casotto e con rappresaglie, incendi, uccisioni di civili, di cui ben sette a Viozene. In val Mongia i partigiani resistettero tre ore all’attacco, poi ripiegarono verso Viola e il Mindino, filtrando in seguito tra le maglie tedesche sui fianchi della valle. Dalla val Corsaglia gli uomini di Vian dovettero screstare in val Ellero e in val Pesio, mentre la mitraglia di Gino Antoniol difendeva fino alla morte un passaggio importante poco prima di Bossea.
La notte di quel 13 marzo i tedeschi e un battaglione d’italiani aggredirono in forze la val Casotto. Ad attenderli erano appostati 400 partigiani armati e circa 500 nuovi arrivati carenti d’armi e d’esperienza. Mauri impostò una difesa da manuale che in quell’ambiente non funzionò. I guastatori che dovevano far saltare ponti e collegamenti vennero catturati e fucilati prima di poter agire; e gli assalitori raggiunsero Roburent sparando, incendiando, saccheggiando, mentre i partigiani si portavano nella più isolata borgata di Tagliante. Il giorno dopo i tedeschi erano a Serra Pamparato; a sera Mauri dovette lasciar liberi di sbandarsi nel buio i suoi ragazzi disarmati, ma dispose azioni di contrasto da parte degli uomini di Cordero, Bogliolo, Ardù. A notte i primi tedeschi erano a Casotto, mentre un’altra loro colonna saliva da Garessio. Si lottò a lungo sotto i colpi delle artiglierie tedesche che battevano le dorsali dei monti e sotto la minaccia di accerchiamento dalle valli vicine. Vista l’impossibilità di resistere più a lungo, Mauri ordinò la ritirata verso l’Antoroto con la copertura del gruppo del “Baraccone”. Un ripiegamento affannoso nella neve e nel buio, tra lontani bagliori di borgate in fiamme: Tagliante, Casotto, il Castello.
Sessanta risultarono i partigiani caduti in val Casotto, oltre alle vittime civili; un centosessanta i catturati. Alcune decine i morti tedeschi e fascisti. “Impossibile in montagna per una banda assumere uno schieramento statico come per una guerra di posizione” rifletté poi Mauri. E gravido di conseguenze il battersi senza avere alle spalle una via di ritirata.

Rastrellamenti e angoscia anche in pianura
Se quei rastrellamenti nelle valli non spazzarono del tutto i ribelli, li costrinsero però a sbandarsi, mentre le voci di fucilazioni e di deportazioni acuivano lo scoramento. La Gestapo e la Polizia di Salò tallonavano ovunque i sostenitori della Resistenza servendosi di spie. A fine marzo rastrellarono anche i rioni di Mondovì, e in Piandellavalle prelevarono Vincenzo Ghiglia e Tullio Boetti, reclutatori di partigiani. Si salvarono fortunosamente dal camion precipitato in Ermena.
La Resistenza conosceva momenti duri anche nel resto del Piemonte, per l’arresto a Torino di Verzone e dei membri del CLN regionale, condannati a morte o all’ergastolo. Tra gli otto fucilati il 25 aprile ‘44 al poligono del Martinetto, il gen. Perotti, che era stato fra gli iniziatori della lotta nel Monregalese.
Il disagio, la paura, la fame si facevano assillanti anche se da noi non si giunse a scioperi come a Torino e in val Tanaro. In città la borsa nera faceva cinici affari; gli sfollati erano saliti a 2.500. Si costituì una sezione del Partito Fascista Repubblicano e un Gruppo Femminile; ma i bandi per il reclutamento nell’esercito di Salò continuavano a raccogliere poche adesioni, e un rapporto riservato della GNR dovette ammettere che “una buona percentuale di giovani ha preferito unirsi ai ribelli”.
A fine marzo, la Gestapo aveva lasciato la zona; allora Pavolini inviò in provincia militi della “Muti” in appoggio a nuovi estesi rastrellamenti. Così la Pasqua del ‘44 portò tre giorni d’inferno agli uomini di Cosa in val Pesio. Ed essi, ricevuti nuovi aviolanci, si prepararono ad affrontare l’attacco con dura disciplina e tattica avveduta. Cominciarono col sabotare ponti e strade, e si appostarono sulle rocce a guardia dell’imbuto di Pian delle Gorre. Il venerdì santo, 7 aprile, giunsero i primi assalitori, seguìti il sabato da carri armati e autoblindo. Forse duemila uomini, pronti all’attacco, preceduti da pattuglie che rastrellavano borghi e cascine sui fianchi della valle. Ad attenderli, centosettanta partigiani ben armati, collegati con radio, pronti a una battaglia difensiva. Più volte gli assalti nella nebbia furono respinti, e la valanga che ostruiva l’ingresso alle Gorre fece la sua parte. Arginati anche tentativi di aggiramento alle spalle, da Limone e dal Vaccarile. A sera, diradatasi la nebbia, da Certosa salirono i carri armati. Ma l’attacco decisivo fu la domenica di Pasqua, con l’appoggio di due aerei “cicogna”. Le postazioni partigiane si difesero a oltranza; poi alle 17 l’ordine inevitabile di Cosa: ripiegare. Tra raffiche e boati nelle abetaie (saltavano il casotto delle Gorre e il rifugio del Creus), i protagonisti dell’impari ma esemplare battaglia salivano verso la ripida Porta Sestrera sprofondando nella neve. All’alba scendevano su Carnino e Upega. Diciotto di loro erano rimasti a chiazzare di sangue la neve della val Pesio. Assai di più furono i caduti tedeschi, e terribile la rabbia dei loro camerati. Furono 120 i civili arrestati, compresi tre padri della Certosa. Poi il 18 aprile, in nuovi rastrellamenti agli sbocchi verso la pianura, altri quattro civili restarono uccisi e 36 arrestati.

Arresti e deportazioni
Dopo le valli, toccò alla città. La sera del 28 aprile ‘44 i “repubblichini” uccisero presso il Cristo due partigiani e ne esposero i cadaveri in piazza del mercato. Quella stessa notte una trentina di antifascisti più o meno noti, di varie tendenze, cadde in una grande retata. Tra di loro, Piero Garelli, Guido Calleri, Eugenio Jemina. Furono chiusi in Cittadella accanto a numerosi partigiani e renitenti ai bandi: 150 in tutto, compresa una cinquantina di giovani carassonesi. Si mossero allora il vescovo Briacca, il commissario Monferino, il direttore della Richard, Pollastri; e parecchi dei fermati furono rilasciati. Per gli altri, interrogatori, lusinghe e durezze. Il mattino dell’ 8 maggio una ventina di loro fu tradotta a Torino. Calleri, Garelli, Jemina, con Vincenzo Bellino, già partigiano in val Casotto, passarono dalle celle delle “Nuove” ai reticolati di Fossoli. E lì Bellino e Jemina furono condotti alla fucilazione con altri settanta. Ma Jemina, che già una volta aveva tentato la fuga, la ritentò con una corsa pazza che spiazzò il plotone. Per gli altri di Fossoli, ai primi d’agosto fu inevitabile la deportazione al lager di Gusen.
Per vie diverse molti altri monregalesi erano intanto finiti in Germania: soldati internati, ebrei, politici e favoreggiatori della resistenza. Anche la maestrina Lidia Beccaria, arrestata in marzo in val Varaita come collaboratrice dei partigiani, era dal 30 giugno nel terribile campo femminile di lavoro e sterminio di Ravensbruck.

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4 - 1944: ESTATE E AUTUNNO DI FUOCO

Mauri si apposta nelle Langhe

Il comandante Mauri, dopo la battaglia di Casotto, aveva raggiunto già in marzo le Langhe e si era appostato coi suoi tra Igliano e Marsaglia. Contattò gli Alleati per nuovi aviolanci, e a Dogliani si abboccò con Vian che si dava da fare tra Bra e Alba. Le colline langhesi, fino ad allora tenute ai margini perché troppo vulnerabili, conobbero allora una forte pressione nazifascista. Il 1º aprile un’autocolonna salì a Surie dove arrestò il parroco, poi a Murazzano dove ci fu uno scontro con feriti, seguito da una rappresaglia con incendio di case e arresto di 14 civili. In risposta, i partigiani attuarono sabotaggi e assalti a camion e treni; ma il 13 maggio Mauri e i suoi si trovarono circondati a Igliano da reparti della “Muti”; e solo dopo una disperata reazione riuscirono a ricacciarli. Il mese dopo, Mauri coadiuvato da Bogliolo dispose azioni e sabotaggi a vasto raggio da Magliano a Lesegno, da Ceva a Nava. A Igliano vigilava Pippo Rizza, a Roccacigliè Italo Cordero; sulla Pedaggera l’estroso Gildo Milano; da Castellino dominava l’ardimentoso Renzo Cesale. E specie Castellino fu più volte assalito, bombardato, incendiato. Proprio nei giorni di fine giugno si presentò a Mauri, a Cigliè, un vivace quindicenne di Carrù. Si chiamava Gimmy, ed era figlio del col. Giuseppe Curreno di S. Maddalena che allora capeggiava la lotta in val d’Ossola. “Non è posto per bambini, questo”, gli disse Mauri intenerito. E lui insistette: non poteva tornare a Carrù dov’era ricercato. Fu assegnato al comando come dattilografo, ma non vedeva l’ora di gettarsi nel gioco della guerra. Un’avventura infine fatale. Sorpreso a Magliano con una Volante, sarà fucilato il 30 marzo ‘45 dai “repubblicani” in riva allo Stura.

Paura e ristrettezze

Fu un’estate movimentata e violenta, quella del ‘44, con un susseguirsi d’azioni clamorose e di rappresaglie, di paure e di crescenti difficoltà negli approvvigionamenti.
A Mondovì il commissario prefettizio Annibale Monferino insistette con un probo cittadino, Michelangelo Pellegrino, scultore ed esperto di problemi amministrativi, per averlo come suo vice. Pellegrino accettò infine per tentare d’alleviare qualcuno dei problemi contingenti insieme ad un comitato di volenterosi e ad un altro comitato nato su impulso del geometra Silvio Manfredi, per offrire una mensa ad anziani e operai. Pure l’Eca, la “San Vincenzo”, le Dame di Carità si adoperarono fra mille ristrettezze ad aiutare i più bisognosi a sopravvivere. Intanto, dopo lo choc degli arresti e delle deportazioni, piccoli nuclei di partiti democratici si radunavano nella clandestinità fra cautele e pericoli.

Paesi in fiamme

La notte del 4 luglio saltarono i ponti di Farigliano e Clavesana, e l’audace Lulù, con un pugno d’Autonomi e di Garibaldini, liberò dal carcere di Fossano un centinaio di detenuti. Immediata si scatenò la spedizione punitiva con una colonna che tentò di salire a Murazzano, ma a Belvedere incappò in un fuoco di sbarramento e fu costretta a ripiegare. Allora la rabbia dei tedeschi si sfogò su Piozzo e Farigliano con incendi di case, l’uccisione di due civili e la cattura di 224 ostaggi. Poi toccò a Carrù, dove gli ostaggi furono una trentina, e i partigiani morti in un agguato addirittura sette: tre dei Carleveri e quattro di Breolungi. Il 6 luglio, nuovo attacco in Langa sia da Carrù sia dalla Pedaggera, con tiro concentrato su Roccaciglié, di dove Italo Cordero e i suoi dovettero fuggire prima verso il Tanaro poi in val Casotto e, di lì, in Liguria (Cordero non aveva mai nascosto le sue perplessità sulla scelta delle colline langhesi come teatro della guerriglia). Via Cordero, il Distaccamento passò agli ordini di Lello Monaco.
L’11 - 12 luglio, dopo l’attacco a una camionetta a Sant’Albano, una colonna tedesca incendiò una cinquantina di case; prelevò ostaggi e li minacciò di morte, e solo le suppliche dell’anziano don Bertino e del vescovo Briacca evitarono in extremis una strage. Ma il 21 luglio toccò a Trinità essere rastrellata, bombardata e, due giorni dopo, saccheggiata ed arsa da un incendio che danneggiò 96 case.
A fine luglio ‘44 Verzone – scarcerato grazie ad uno scambio di prigionieri –saliva a Ciglié; e Mauri, in contatto con Cosa e gruppi di Mango e della val Belbo, perfezionava l’organico di divisioni e brigate del 1° settore Monregalese. Sotto il suo comando nasceva il 1° Gruppo Divisioni Alpine forte di 4.500 partigiani, 3.500 dei quali nel Monregalese.

Assalto all’Aeroporto

Sempre in quel mese ci fu un nuovo assalto all’Aeroporto di Mondovì, custodito da tedeschi e da una settantina d’avieri repubblicani, stanchi dei nazisti e della guerra. La trentina di partigiani del tenente Ippolito contava sull’effetto sorpresa che però funzionò solo in parte. All’interno dell’Aeroporto si scatenò infatti nel buio un inferno di spari. Comunque circa quaranta avieri furono “liberati”; gli altri restarono al Campo. Nessuno dei “parabellum” che facevano gola agli assalitori poté essere trafugato. Due le vittime di quell’avventura fra i partigiani; due o più fra i tedeschi. Venti giorni dopo quell’Aeroporto militare modello saltava in aria per mano tedesca.

“Banditi” da debellare

Nell’estate 1944 le bande partigiane, rimpolpate di nuovi venuti, sembravano controllare le valli e tenere sotto tiro la città e la pianura; sicché i nazifascisti erano decisi a tutto pur di “debellare il banditismo”, ristabilire i presidii nei paesi, l’ordine pubblico, la sicurezza sulle strade. A tale scopo, in appoggio alla Guardia Repubblicana, furono costituite le Brigate Nere; ma lo sparuto squadrismo cuneese riuscì a mettere insieme, per la Brigata Lidònnici, solo 146 uomini sui 250 previsti. Per la lotta anti-partigiana in provincia dovettero giungere di fuori le Divisioni San Marco e Monte Rosa, oltre a reparti dei Cacciatori degli Appennini. Nel timore ricorrente di uno sbarco alleato in Liguria, giunse poi anche nell’entroterra la 34ª Divisione tedesca del gen. Lieb, reduce dalla Russia. Attaccata da partigiani di vari gruppi mentre risaliva la val Tanaro, la 34ª di Lieb si vendicò specie su Pievetta (18 civili e 55 case bruciate) e su Garessio (200 ostaggi, di cui 5 fucilati e 50 avviati in Germania con altri 43 di Bagnasco, Priola e Nucetto, che in parte riuscirono a fuggire).

Bombe su treni, tram e paesi

Nel pomeriggio del 31 luglio un aereo bombardò e mitragliò Dogliani all’impazzata provocando 26 morti, molti feriti e danni a diciotto case. Fu forse la rappresaglia privata di un pilota fascista, si disse. Di marca alleata furono invece le bombe che la sera del 3 agosto fecero sette morti a Lesegno e quelle che il 10 agosto colpirono il ponte ferroviario sullo Stura fra Trinità a Fossano. Bombe caddero pure a Crava e altrove. Il ponte ferroviario di Lesegno fu fatto saltare alle due estremità dai partigiani; e nel suo bel mezzo rimasero tre vagoni, più volte bersagliati dagli aerei. Anche i tram furono spesso presi di mira: sette i morti agli Sciolli su quello del Santuario il 14 agosto; altre vittime il 5 settembre al Beila, sul tram di Villanova. Azioni dure, cruente, inspiegabili ai più in quella impietosa guerriglia che colpiva indiscriminatamente, creando difficoltà non soltanto ai nazifascisti.
Dogliani visse altri momenti tragici ai primi d’agosto, quando una colonna tedesca, raggiunta da spari di partigiani “garibaldini”, uccise sette civili e incendiò 28 case. Allora s’offrirono coraggiosamente come ostaggi il parroco don Delpodio e il generale Martinengo. Un’altra colonna che muoveva da Carrù verso Clavesana fu ostacolata al ponte del Cotonificio, ma riuscì a raggiungere Murazzano e costrinse quei partigiani a ripiegare nei paesi vicini. Cinque le vittime civili e una fra i partigiani.

Mauri: una cattura e una fuga rocambolesca

Proprio il mattino del 1° agosto il comandante Mauri veniva catturato dai tedeschi al bivio tra Ciglié e Clavesana. Portato a Bra e poi a Cuneo, dopo tre giorni riuscì a guizzare via dall’auto che lo stava spostando a Torino e a rifugiarsi prima a Bastia presso il prof. Luigi Berra, collaboratore della Resistenza, e poi a Ciglié. Una fuga rocambolesca che destò varie illazioni e scompaginò certe manovre premature per la successione. In realtà, come ha provato ora lo storico Carlo Gentile, c’era stato un accordo col cap. Wiessner. Un registro delle SS annotò infatti: “Wiessner è a Cuneo per trattative. Mauri ritorna presso le sue Formazioni partigiane. Accordo: niente attacchi contro la Wermacht; informazioni sui gruppi comunisti; rastrellamento e presidio”, ma aggiunse anche: “Prima i comunisti, e poi Mauri”. Un’intesa stipulata da entrambi i contraenti con una riserva mentale. Un piano di cui Mauri doveva essere al tempo stesso strumento e vittima. Comunque, riacquistata la libertà, Mauri riprese la lotta e alla prova dei fatti fu lui a giocare i tedeschi, e non viceversa.
Una volta in Langa, Mauri non tardò a riavere in pugno la situazione. Già il 6 agosto accolse la Missione paracadutata del maggiore inglese “Temple” (che si spostò poi al Pino di Baracco e sulla Tura, dove avvennero numerosi aviolanci di materiali raccolti e smistati dal distaccamento di Beppe Milano, un tenente fariglianese esperto e volitivo, reduce di Russia e allora capo di un gruppo di bravi ragazzi di Mondovì e dintorni, fra i quali saliva spesso don Beppe Bruno).
Una pista d’atterraggio e decollo per altre missioni alleate e per l’invio di feriti in ospedali in zone dell’Italia già liberata fu realizzata nel cuore della Langa, a Vesime. Dalla val Ellero partirono, a fine settembre, il professore villanovese Giovanni Bessone e l’avv. Augusto Astengo per riferire, dopo un viaggio molto avventuroso, al Governo legittimo la situazione del sud Piemonte.Trovarono parecchie diffidenze; ma Bessone riuscì a infilarci, di suo, un sollecito al principe Umberto perché si trasferisse al Nord.

Colpi di mano e di testa

La breve cattura di Mauri aveva, tra l’altro, evidenziato l’opportunità di disporre di prigionieri di spicco per eventuali scambi, e le Volanti si scatenarono per procurarsene. Così la III Divisione Alpi mise gli occhi su due toscani esponenti del Fascio repubblicano a Mondovì: l’ing. Andrea Nicoli, direttore della PCE, e Osvaldo Pollastri, direttore della Richard Ginori di Carassone. Ma quest’ultimo restò ucciso nel tentativo maldestro dei catturatori, e l’altro, avvisato in tempo, reagì e li mise in fuga. Di qui la vendetta del Comando tedesco con la fucilazione, la domenica mattina 6 agosto in piazza Maggiore, del capitano genovese Cesare Jemini e del manovale trinitese Giuseppe Curti, catturati due settimane prima a Fontane. Orrore e pietà sulla piazza tra la gente che usciva da Messa grande. Ma la lotta non poteva concedersi soste: nei suoi ritmi impietosi, comportò anzi un’intensificazione di imboscate, sabotaggi e ritorsioni un po’ ovunque. Il 18 agosto a Carrù Gildo Milano fece fuori tre ufficiali tedeschi, e il paese fu minacciato d’incendio, ma fu salvato in extremis dall’intervento del piozzese Arduino. Pochi giorni dopo, Castellino fu di nuovo assalito in due riprese, e la Brigata di Cesale dovette arretrare fino a Ciglié, mentre da Castellino, Igliano, Torresina salivano bagliori di incendi e spari sui civili.
Anche quelli della III Divisione Alpi furono attaccati, ma non cessarono le azioni e le puntate delle Volanti: a Beinette, Pianfei, Peveragno, ai Gandolfi di Monastero Vasco, alla galleria del Santuario. E in una val Casotto ancora spaurita e diffidente dopo la cruenta battaglia di marzo, si fece sentire la IV Divisione di Aceto, Vanni e Gaglietto; e così in val Mongia e in val Tanaro, su a Viozene.
Ai primi di settembre reparti della 34ª Divisione tedesca si stabilirono coi loro carri armati anche nel Monregalese, e centinaia di Cacciatori degli Appennini; si stanziarono in Cittadella col tenente Chiti e nel castello di Carrù col tenente Rizzo, mentre altri altri presidi vigilavano da Garessio, Magliano, S. Albano, Dogliani. Il comandante in capo dei “Cacciatori”, il ligure colonnello Aurelio Languasco, era invece a Ceva nel castello dei Pallavicini.

Una spavalda impresa in cerca di sale

Il primo ottobre ‘44 i Cacciatori si scontrarono con partigiani a Breolungi, e il col. Languasco fece prelevare ostaggi minacciando di distruggere la frazione. Lo fermarono il vescovo e il prevosto di Breo, don Roatta, che favorirono una trattativa e a sera ottennero il rilascio di tutti. Il 6 di quel mese, due camion di uomini della val Ellero partiti da Prea scesero in pieno giorno a Mondovì per rifornirsi di sale e di nafta: un’avventura spavalda che destò sorpresa e applausi dalle finestre, e fruttò anche un ostaggio, un tenente in divisa del Regio Esercito. Inseguiti da colpi di mitraglia e di mortaio, i partigiani se ne tornarono in valle, ma gli abitanti di via Beccaria che li avevano applauditi passarono ore d’angoscia. Fatti scendere tutti in strada, interrogati, catalogati e minacciati di fucilazione, furono infine lasciati liberi sotto condizione: nulla doveva accadere all’ufficiale catturato, se no... kaputt. Una beffa e uno spavento che si meritarono una citazione da Radio Londra.
23 giorni di libertà per Alba
Quell’autunno, mentre gli Alleati risalivano faticosamente la penisola, i partigiani di Mauri facevano di Alba una libera Repubblica, sia pure per soli 23 giorni, dal 10 ottobre al 3 novembre. Una libertà esaltante ma fragile, perché i fascisti tornarono in forze il giorno dei Morti, sotto la pioggia battente e a difendere Alba, conquistata in duemila, restarono in duecento, come racconta, senza retorica, Beppe Fenoglio. Sei i caduti partigiani, tra cui il monregalese Giovanni Daziano, sei quelli della Repubblica, in quel confronto impari che comunque confermò una presenza e una volontà di riscatto che alla fine sarebbero state vincenti.
In quel mese colpì anche la tragica sorte di altri monregalesi: l’arresto e la fucilazione a Savona per mano fascista della pettinatrice Paola Garelli, giovane mamma e staffetta garibaldina, autrice di una toccante lettera inserita tra le “Ultime lettere di condannati della Resistenza Italiana”; e il vile agguato teso dalla Brigata Nera cuneese al cap. Domenico Franco e a Nino Veronese. Con un salvacondotto erano andati in moto a Cuneo a trattare uno scambio di prigionieri così da far tornare libero Ignazio Vian che credevano ancora detenuto a Torino, mentre era stato impiccato più di due mesi prima. Al loro ritorno furono uccisi a Beinette e poi dati alle fiamme.

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5 - RAPPRESAGLIE NAZI-FASCISTE IN LANGA E NELLE VALLI

Novembre ‘44: attacchi alle Langhe...

Nel tardo autunno 1944, mentre gli Alleati ancora non riuscivano a valicare la linea Gotica, nel nord Italia, e anche nel sud Piemonte, i nazifascisti muovevano in forze contro i partigiani.
Il 27 ottobre il colonnello Languasco, dei “Cacciatori degli Appennini”, annunciò un capillare rastrellamento in Langa, da Alba a Sale Langhe; e in novembre affluirono molte forze per un attacco concentrico. Il comando dell’operazione era a villa Nasi, sull’Altipiano di Mondovì, affidato al generale Lieb, capo della 34.a Divisione tedesca. Una colonna della “34.a” aveva già effettuato rastrellamenti in val Vermenagna, a Boves e Peveragno, ed al suo avvicinarsi a Mondovì era stata contrastata al Morté, fra Lurisia e Chiusa, da uomini della Val Pesio guidati dal ten. Gianni Raineri. Ma la colonna era riuscita a scendere a Roccaforte e poi a ripartire verso Mondovì e la Langa. Altri tedeschi e Cacciatori degli Appennini, Brigate Nere, X Mas si venivano intanto ammassando fra Ceva e Carrù. I partigiani della Langa si apprestarono allora freneticamente alla difesa, con l’aiuto di civili e di materiali aviolanciati. Mauri era allo Sbaranzo, Bogliolo a Marsaglia; sui colli e nei fondovalle tutte le Brigate erano all’erta, mentre i civili tenevano il fiato. Contro i carri armati e le artiglierie pesanti, cos’avrebbero potuto i fucili, le mitraglie, i mortai d’accatto?
Il fuoco nazifascista cominciò nella notte del 12 novembre da Ceva e Lesegno, seguìto il mattino dopo da attacchi durissimi alle postazioni di Torresina e della Pedaggera. Castellino fu cannoneggiata e poi presa da mezzi pesanti e da fanterie. Dalla Pedaggera gli attacchi furono respinti, ma i nazifascisti si assestarono a Niella, Bastia e Stazione di Carrù. Di lì bombardarono Clavesana e i Ghigliani e tentarono più volte, vanamente, di passare il Tanaro.
Gli assalti si ripeterono nei giorni successivi verso Torresina, Castellino, Roccaciglié, mentre dalla zona di Carrù pattuglie protette da carri armati riuscivano a infiltrarsi oltre il fiume per attaccare poi tutto il fronte sfondandolo a Clavesana (e proprio a Marsaglia, il maggiore Temple avrebbe perso la vita ai primi di novembre).
Per evitare l’accerchiamento dei panzer, Mauri e Bogliolo ordinarono allora di ripiegare su Murazzano e Bossolasco, chiedendo a quelli della Pedaggera una strenua copertura. Ma, la sera del 15, Murazzano fu raggiunta dai tedeschi che catturarono 22 ostaggi civili e irruppero anche in quell’ospedale. I feriti – partigiani e prigionieri tedeschi – l’avevano lasciato appena in tempo. Fino alla Pedaggera e a Bossolasco la Langa passò in mani nazifasciste, e Castellino, Marsaglia, Murazzano pagarono duramente l’ospitalità e l’appoggio dato ai partigiani. A Castellino dieci ostaggi furono passati per le armi; il parroco fu arrestato e varie case incendiate. Poi toccò alle valli Belbo e Bormida e al basso Monferrato. Solo allora il grosso degli occupanti tornò a valle lasciando a Belvedere, Murazzano, Marsaglia, Castellino dei presidi che attuarono nuovi rastrellamenti e arresti, spingendo più volte il vescovo Briacca ad accorrere affannato per chiedere più umanità e il rilascio di vari preti fermati, tra cui don Vittorio Corrado.
Il lungo e duro ciclo di rastrellamenti e scontri causò perdite rilevanti in uomini e mezzi e un momentaneo sbandamento delle Brigate Autonome e Garibaldine. Un dramma condiviso con angoscia ma con sostanziale solidarietà dalla gente dei posti, a prezzo di lutti, danni, spaventi. Poi le bande si riformarono e la guerriglia riprese nella Langa innevata.

...poi, in dicembre, tocca alle valli
Dopo le Langhe l’attacco si concentrò sulle valli monregalesi; e ci furono scontri a Casotto, Pamparato, Corsaglia e nelle valli Ellero e Pesio. L’11 dicembre la pressione di tedeschi e repubblicani si fece fortissima dalla val Corsaglia alla Bisalta. Da parte dei “ribelli” si ebbero tentativi di contrastarne l’avanza, ma anche inevitabili ripiegamenti all’insù, verso le cime dei monti. Si cercava di far perdere le tracce sulla neve, tenendo però in qualche modo i collegamenti con le altre bande.
Fu allora che, per dolorosa decisione di quelli della Tura, fu fatto saltare il rifugio Mettolo Castellino, stipato di materiali aviolanciati che non dovevano cadere in mano tedesca. Il 14 dicembre una ventina d’uomini di Mario Bassignana furono circondati alla Balma dai “Cacciatori degli Appennini” e riuscirono a fuggire in pochi, mentre la cappella era in fiamme. Il giorno dopo, gli uomini delle valli Ellero e Corsaglia, premuti da colonne tedesche salite da Fontane e Rastello, ripiegarono verso il Morté occultandosi poi in pianura. Altri del gruppo Comando, sfuggiti ad un’imboscata sotto il Cars, calarono in val Pesio, di dove anche i capi Cosa e Giacosa dovettero fuggire trovando rifugio nel Santuario di S. Lucia a Villanova.

Natale nella grotta per quelli della Tura
Pochi giorni prima del duro Natale 1944 il Distaccamento della Tura, che comprendeva molti giovani dei Circoli cattolici di Mondovì e dintorni, cercò rifugio in un’esigua caverna sotto la cima Durand. Il suo comandante Beppe Milano avvampava di febbre. A condividere quelle trepidazioni e quel presepe buio e gelido c’era pure don Beppe Bruno, “prete dei ribelli”. Il 18 dicembre, insieme ad un partigiano, don Beppe volle scendere verso Villanova in cerca di medicinali. Tornò il 21 con dei soccorsi; e la sera del 23 tutti uscirono carponi dalla caverna. Stesero Beppe Milano s’una slitta per il fieno e, con fatica e rischio, riuscirono a raggiungere Prea e poi l’Ospedale di Mondovì, dove i medici, di nascosto, tentarono, un disperato intervento. Ma dopo giorni d’agonia il comandante morì, proprio mentre moriva quel tragico 1944.
Da Natale la pressione sulle valli si era rallentata. Il rastrellamento aveva fatto decine di caduti partigiani e civili, e aveva portato razzie e incendi. Però non aveva annientato “i banditi” come tendevano invece a far credere i bollettini della Repubblica Sociale.

Il 28 dicembre arriva a Mondovì il “Tenente Nero”
Già il 28 dicembre giungeva da Alba a Mondovìil tenente Alberto Farina, 25 anni, di Frosinone, accompagnato da una bionda amante ventiduenne, Emma Osella, e da quindici uomini duri e maneschi della Guardia Nazionale Repubblicana.
“ Je faccio vede’ li sorci verdi”, promise Farina; e attuò subito retate di giovani; setacciò vie, case, campagne sotto la minaccia di mitraglie ad ogni posto di blocco. Seguiva indizi anche minimi, dava ascolto a soffiate di spie; e se non scovava ribelli, ne arrestava i parenti.
L’ultimo piano della Casa del Fascio, accanto al Municipio, era divenuto una prigione, luogo temibile di interrogatori e violenze. Specie i bracci destri del tenente nero – i grossetani Bianchini e Bonaccorsi – si mostravano spietati; e la bionda Emma li incitava. Finirono sotto torchio decine di prigionieri e loro famigliari. Tra loro, l’ing. Giuseppe Fulcheri, del CLN locale; e il mite sarto Bastianin Vinai troppo amico, col fratello Giacinto e le sorelle, di don Bruno, “prete dei ribelli”. I tedeschi del tenente Hesse e del capitano Hildebrand della 34.a Divisione lasciavano che i “neri” incrudelissero; poi l’infermiera Lina Magliano saliva dal sottostante ambulatorio a medicare ferite e tumefazioni.
Altrettanta durezza, nel Monregalese, mostravano il tenente Attilio Rizzo a San Michele, Magliano, S. Albano, Carrù, e lo scalmanato Anzicora Canessa a Roccaforte e Lurisia. Arrestavano, torturavano, facevano ostaggi. Fu Rizzo a far fucilare il 2 febbraio a Magliano i monregalesi Marco Botto e Matteo Magnino, provocando una scia di reazioni che don Restagno, don Roatta, don Dadone si adoperarono a smorzare favorendo uno scambio di prigionieri. In quello stesso 2 febbraio quelli di Canessa saccheggiarono il Santuario di S. Lucia lasciando scritte minacciose contro don Bruno. Tra le loro vittime, il monregalese Osvaldo Gasco e il paschese Biscia. Di qui una nuova protesta del vescovo e una spedizione dei partigiani di Scimé contro il presidio nero di Roccaforte. Nello scontro cadde Gino Mellano, ex marinaio, medaglia d’oro. E i fascisti, che ebbero anche loro un morto e alcuni feriti, incendiarono varie case a Lurisia e uccisero tre civili; poi portarono con sé in ostaggio tre donne, tra cui la sorella di Biscia. Giunti a Crava, le uccisero barbaramente.
In Langa, tra Alba e Dogliani, si riorganizzavano i garibaldini di Giovanni Latilla e la brigata Matteotti di Paolo Farinetti. La Divisione “Giustizia e Libertà” era tra Bene e Monchiero. Il Gruppo Divisioni Autonome di Mauri, pur avendo perso seicento uomini, si riformò e consolidò, e riprese le imboscate e le insidie agli occupanti nazifascisti, impedendo tra l’altro ai Cacciatori degli Appennini il transito alle Surie, vere “Termopili” delle Langhe.

Muoiono Lulù e Franco Centro
Per un equivoco l’audace maquis Louis Chabas, Lulù, restò ucciso presso Benevagienna ad un posto di blocco garibaldino. Si era travestito da tedesco per attuare uno dei suoi leggendari colpi a sorpresa, e non fu riconosciuto dai suoi compagni di lotta. Renzo Cesale, arrestato in dicembre a Cherasco, era riuscito a fuggire e a tornare a capo della sua Brigata Castellino. Gildo Milano teneva in pugno la zona della Pedaggera. In val Bormida ripresero gli aviolanci, ma anche gli scontri tra Cortemilia e Saliceto.
Il 15 febbraio a Castino veniva fucilato Franco Centro, una staffetta di soli quindici anni, la più giovane medaglia d’oro della Resistenza. Nato a Bastia, residente a Mondovì, Franco si era unito ai partigiani come porta-messaggi. Sorpreso con documenti del Comando garibaldino, era riuscito a distruggerli e a tacere, nonostante le torture. Venne fucilato guardando in faccia il plotone, a cui chiese, con coraggio modellato sugli eroi risorgimentali studiati a scuola, di mirare sulla stella rossa che aveva cucita sul petto.
Mauri, che aveva fissato il Comando a Roccaciglié, il 1º marzo ordinò un assalto al presidio fascista di Belvedere Langhe, ma dovette subito dopo affrontare un massiccio attacco nemico sferrato sia dalla direzione di Farigliano sia da quella di Castellino. I difensori delle Surie e dello Sbaranzo resistettero a prezzo di molti caduti, ma dovettero infine ripiegare, come pure altri settori. Bogliolo dalla val Bormida e Gildo Milano dalla Pedaggera inviarono rinforzi che s’incontrarono al bivio per Murazzano, proprio mentre transitava col suo Stato Maggiore il colonnello Aurelio Languasco, l’ufficiale repubblicano più alto in grado in tutta la zona. Nella sparatoria che ne seguì due fascisti persero la vita, e il colonnello rimase ferito a un braccio. Ottenne una vendetta sanguinosa: una rappresaglia spropositata che condusse alla fucilazione decine di ostaggi a Mondovì, Ceva, Carrù.

Tante fucilazioni
Cinque i giustiziati a Ceva, sette a Carrù, fra i quali i monregalesi Giovanni Panebianco, Giorgio Roggero, Mario Comino. Quest’ultimo aveva 25 anni ed era reduce di Russia. Entrato nella Volante di val Ellero, era stato denunciato da una spia e arrestato da Farina insieme a un disertore austriaco. Per salvarlo, Comino cercò di farlo passare per suo prigioniero; ma i fascisti sapevano la verità. L’austriaco riuscì a fuggire, e Comino fu portato a morte il 6 marzo.
Otto avrebbero dovuto essere i condannati a Mondovì, ma le suppliche di don Bernardino Restagno a nome del vescovo Briacca ottennero una riduzione: a cinque, poi a tre. Di più non fu possibile. Da un crudele sorteggio uscirono i nomi di tre bravi ragazzi monregalesi: Andrea Belvolto, Vincenzo Carasso, Giuseppe Ferreri. Una folla piangente, accorsa sotto la Casa del Fascio, non riuscì a fermare l’autoambulanza né l’auto di Farina; e i genitori, trafelati, giunsero troppo tardi per un estremo abbraccio. I giovani furono messi contro il muro esterno del camposanto. Vari proiettili si conficcarono sul cornicione in alto; allora il capo plotone si avvicinò a Ferreri che dava ancora segni di vita e gli sparò un colpo di pistola. Ferreri continuò a rantolare. Suo fratello, giunto urlando in quel momento, aiutato dal sacerdote e dall’autista riuscì a caricarlo sull’ambulanza e a portarlo in Ospedale, dove sopravvisse fino a notte. Il 12 marzo il bombardamento di Mondovì.

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6 - “FRA POCHI DI’ SI CALA AL PIAN...”

Giorni frenetici, intensi, confusi e terribilmente tragici, prima di liberare Mondovì
S’intensificano le azioni partigiane

Con i primi sentori di primavera e con gli annunci di una decisa offensiva alleata sulla Linea Gotica, ci fu un intensificarsi di azioni partigiane nelle varie zone. Tra queste, ripetuti sabotaggi di uomini della brigata Castellino a convogli carichi di materiali bellici, e attacchi nel settore Langhe Ovest ad una colonna tedesca che aveva fatto razzie a Trinità (e fu la volta che il sedicenne carrucese Gimmy Curreno fu catturato con due compagni, e poi fucilato a Cuneo in riva al Gesso).
I partigiani volevano preparare e magari precedere la spinta decisiva per la liberazione, e si facevano più incalzanti; ma la loro aggressività costava pesanti contrattacchi e rappresaglie: tre partigiani fucilati a Ceva il 31 marzo; due prigionieri di Farina (Renzo Caviglia e Michele La Salvia) giustiziati il 2 aprile a Mondovì; rastrellamenti l’8 e il 9 aprile tra Castellino e la Pedaggera. Intanto era atterrato sull’improvvisato aeroporto di Vesime il colonnello inglese Stevens con vari ufficiali e con un commando dotato di mortai e di pezzi d’artiglieria. Si avvicinava la fase finale del conflitto, e gli Alleati intendevano svolgervi un ruolo di protagonisti e, insieme, di controllori.
“Fra pochi dì si cala al pian”, si cantava sulla Tura, e gli altri monti facevano eco. Gli occupanti cominciavano a temere la disfatta, ma reagivano accentuando la ferocia.

Per i nazifascisti, sentore di disfatta
In segreto, il tenente nero Farina chiese un abboccamento con capi partigiani. L’incontro avvenne a Niere il 2 aprile con Gigi Scimé, presenti come garanti don Dino Restagno e Michele Mantelli, e – per Farina – l’aiutante Bianchini. Fu concordato d’evitare, in caso di resa, rappresaglie e uccisioni di combattenti, di considerare prigionieri di guerra gli eventuali catturati e di astenersi da molestie ai civili. Ma già il 13 aprile Farina mancava alla parola, e andava a Bastia a catturare il prof. Luigi Berra, ideologo della lotta, e il partigiano Antonio Avagnina. Il primo fu liberato dieci giorni appresso; ma Avagnina, che aveva già perso un fratello partigiano come lui, fu ucciso senza pietà. Il giorno dopo, nuova uccisione di tre partigiani – Basso, Ciocca e Colombo – sorpresi da Farina ai Gosi di Pianvignale.
Nonostante ciò, il “tenente nero” chiese un altro approccio ai capi partigiani; e il 22 aprile andò a trattare la resa del suo Presidio fascista. Solo allora, sperando di recuperare credibilità e di sgravarsi la coscienza, liberò una ventina di prigionieri. Anche i tedeschi compresero che la loro sconfitta era prossima, e conobbero il crollo delle illusioni e della superbia, l’incertezza della sorte e della meta, l’umiliazione della ritirata, lo sconforto e la rabbia.
Le truppe della 34ª Divisione del gen. Lieb lasciarono allora la Val Tanaro per venire verso Mondovì e tentare di raggiungere un nord tutt’altro che sicuro per loro. Dietro a quelle, in un caos crescente, colonne su colonne provenienti dalla Liguria. I soldati entravano nelle case con armi in pugno e sguardi smarriti a chiedere cibo e ricovero per una notte, o a requisire biciclette per una fuga verso l’ignoto. Pure l’esercito della Repubblica di Salò – con le Divisioni Monte Rosa e San Marco – era in sfacelo, e si sentiva tallonato sempre più da vicino.

24-25 aprile: scocca l’ora della liberazione
Il 25 aprile l’ing. Fulcheri, presidente del CLN locale, liberato dalla prigione fascista, scrisse dalla val Corsaglia agli altri membri del Comitato sottolineando l’urgenza di una riunione per decidere sulle modalità dell’attacco finale e sui programmi e gli obiettivi del dopo liberazione. Le decisioni vennero abbozzate in un colloquio a Roracco fra il capitano Scimé ed il CLN. La zona monregalese sarebbe stata liberata dalla V Divisione Alpi, e Scimé sarebbe stato il comandante della piazza di Mondovì. Il CLN provinciale, per parte sua, avocò a sé la decisione sulle principali cariche, e nominò prefetto l’avvocato Guido Verzone, questore l’avvocato monregalese Claudio Roggeri, sindaco di Mondovì l’industriale ceramico Primo Silvestrini, appassionato socialista di sangue romagnolo.
L’ora dell’insurrezione generale scattò tra il 24 e il 25, a mezzanotte, con un messaggio in codice: “Aldo dice 26 x 1”. E vennero i giorni attesi e sofferti del riscatto e della liberazione.
Tutte le formazioni antiche o recenti rivendicavano un ruolo da liberatori. C’erano strade da sorvegliare; colonne da tenere a bada, città, paesi e punti nevralgici da occupare.
Quel 25 aprile la brigata Castellino attaccò colonne nazifasciste in fuga disordinata da Ceva a Mondovì; le brigate Mongia, Casotto e Tanaro premettero sui presìdi di valle. Mauri, dalle Langhe, dispose che una parte dei suoi uomini contribuisse a liberare Torino e Savona, e un’altra parte operasse nei centri del Monregalese.
Il 26 aprile la V Divisione scese a Roccaforte e Villanova, e di lì il capitano Scimé mandò a intimare la resa al Distretto. A metà pomeriggio il ten. Salvi ne consegnò le chiavi al giovane partigiano Vanni Turbiglio. Il mattino dopo si arrese anche il Presidio di Mondovì. Restava da badare ai tedeschi.
Don Ilario Roatta, energico prevosto di Breo, per incarico del Comando partigiano, si presentò al gen. Lieb e gli disse che era augurabile un passaggio di poteri senza altro spargimento di sangue. “In che modo?” chiese il generale. “In uno solo: consegnando le armi e arrendendovi ai partigiani”. Lieb, già difensore di Karkov e quattro volte decorato, rispose con fierezza: “Voglio l’onore delle armi e salva la vita mia e dei miei uomini”. E aggiunse che, se i partigiani avessero fatto mosse sbagliate, egli avrebbe fatto saltare in aria l’intera Mondovì. I ponti, comunque, li avrebbe distrutti per guardarsi le spalle.

Farina e i suoi si consegnano ai partigiani
Invece il tenente Farina, la bionda Emma Osella e la quindicina di Guardie Nazionali Repubblicane della sua banda, scuri in volto, andarono al Ferrone a deporre le armi in casa del tenente Gregorio, poi raggiunsero Villanova e si arresero a Scimé, garanti don Pietro Servetti, l’ing. Nicoli, il ten. Mario Barberi. Scamparono a stento al linciaggio della folla inferocita, e vennero portati a Roccaforte, dove furono custoditi al Leon d’Oro. Allora a Villanova si riunì il Comitato di Liberazione per gli ultimi accordi sulle Giunte locali. Per quella monregalese fu deciso che i vice di Silvestrini sarebbero stati l’avv. Eugenio Comino, democristiano, e l’ing. Giuseppe Fulcheri, liberale. Poi Scimé stese l’ultimatum per i tedeschi. I quali stavano davvero minando i ponti con l’impiego anche di ostaggi civili.
Il sabato 28 aprile la V Divisione Alpi si appostò alla periferia di Mondovì. La brigata val Maudagna del ten. Gianni Raineri doveva puntare su Piazza; la brigata Val Corsaglia del ten. Mario Bassignana doveva controllare la Statale 28; i duecento uomini della Val Ellero, col ten. Luchino, dovevano impadronirsi della stazione ferroviaria sull’Altipiano; la squadra Comando doveva occupare il centro città. Intanto agli Sciolli si tenevano pronti i Garibaldini della 179.a brigata costituita appena in marzo su impulso del Pci monregalese e affidata al ten. Dogliotti. E dentro la città una settantina di uomini armati organizzati dal ten. Gregorio e comandati da Andreino Ellena dovevano assicurare l’ordine e contenere per quanto possibile la distruzione d’opere pubbliche.

Tedeschi in fuga
Nel pomeriggio un boato proveniente da Carassone fece capire che era saltato il primo ponte: quello dello Steirino, con la vicina cappella di san Sebastiano. A Breo intanto transitavano colonne su colonne in fuga, in una confusione nervosa e rabbiosa. E Lieb era determinato a tagliarsi tutti gli altri ponti alle spalle.
Quelli della brigata val Maudagna il mattino del 28 avevano effettivamente raggiunto dai Gosi la collina dei Ligarilli, vicinissima a Piazza, e con Angelo Ferrua si erano posizionati sopra la cappella di S. Croce e presso la Polveriera con Marco Rossetti. Ma Raineri aveva anche mandato avanti sette dei suoi uomini migliori, fino in piazza d’Armi, proprio sotto la Cittadella ormai deserta. Quand’ecco, a metà pomeriggio, verso borgo S. Croce avanzarono gruppi di soldati tedeschi in bicicletta. Furono accolti a colpi di fucile e di mitraglia. I tedeschi si buttarono al riparo nei fossi e risposero con sventagliate di Mayerling che colpirono a morte Luca Eula sulla scarpata di piazza d’Armi e ferirono Pucci Roà. Poi continuarono a sparare verso la piazza e verso via Vico non appena riuscirono a raggiungere le case presso il peso pubblico. Colpito alla fronte, cadde Enrico Baudino. Sopraggiunsero altri tedeschi e si acquattarono dietro il bastione della curva. Di lì centrarono Tommaso Tomatis. Il tenente Raineri ordinò allora ai superstiti di strisciare verso il fondo di piazza d’Armi fino al muro di Vignalunga e oltre. Strisciò anche Hans Wilke, un alsaziano passato ai partigiani; ma si soffermò a coprire col suo fuoco i compagni. Fu così raggiunto da una pallottola e poi da tedeschi che – visti i suoi capelli biondi e gli stivali della Wermacht – gli spaccarono il petto colla baionetta e lo fecero rotolare giù dalla scarpata.

E ancora sangue e rabbia
Lo scontro armato si calmò verso le 18; ma la furia tedesca si spostò sui civili che avevano sbirciato tutto dalle finestre, col batticuore. Di quella rabbia rimasero vittime, presso il Peso, Stefano Barberis e Luigi Mamino, “il Muto”, e poi un barbiere di via Vico, una donna in piazza Maggiore. Raccoltisi di nuovo in colonna, i tedeschi scesero allora verso Breo con la loro porzione di morti e feriti continuando a sparare e incrudelire. A Porta di Vasco colpirono due civili inermi, Luigi Bertone e Luigi Prinetti; a Breo tentarono aggressioni e furti. A Breolungi, intanto, aerei alleati mitragliavano un’altra colonna in fuga facendo strage soprattutto di cavalli.
Dall’altura del Beila, invece, i partigiani della “Val Ellero” arretrarono temporaneamente su Villanova. I loro capi e il CLN avevano infatti ritenuto, dopo drammatica riflessione, che un tentativo armato di salvare i restanti ponti avrebbe rischiato di accendere ancor più la furia tedesca contro la popolazione e di far versare altro sangue. La sorte dei ponti cittadini era segnata.
Quella notte fra il 28 e il 29 aprile la gente se ne stette rintanata nei rifugi tremando e pregando in attesa del finimondo. La rabbia dei fuggiaschi non si fermava di fronte alle porte sbarrate né provava pietà per gli inermi. Verso la mezzanotte una loro pattuglia irruppe al Santuario nella villa Balbo e poi in una casa vicina abitata dalla famiglia Prato, e a colpi di mitra freddò il padre Francesco, la madre Giovanna, la figlia Marcella, il figlio Franco, quattordicenne. Forse c’era stata la soffiata di una spia: quel capofamiglia era un militante comunista, in contatto col CLN. Così si disse poi; ma immediata scattò la reazione partigiana con una sanguinosa imboscata nella galleria del Santuario a una nuova colonna in ritirata.

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7 - SALTANO I PONTI ALLE SPALLE DEI NAZISTI IN FUGA

Tra macerie, lacrime e problemi, si respira aria di libertà

Boati nella notte

Nel pieno della notte tra il 28 e il 29 aprile le case e la gente di Mondovì furono scosse da terribili boati. Acquattati nei rifugi, tutti se li aspettavano, ma con la remota speranza che in extremis qualcosa li potesse impedire. Invece i collegamenti sull’Ellero stavano saltando ad uno ad uno. Per primo il ponte della Madonnina, con la sacra edicola al centro; poi quello Nazionale; poco dopo quello delle Ripe. “Adesso tocca al viadotto” diceva contando i minuti chi ancora conservava un po’ di lucidità. Difatti, ecco lo schianto più pauroso, seguito da un vento che ruppe vetri e finestre. “Questo però significa che i tedeschi se ne sono andati...” commentò qualche voce per tirare su gli animi. Dopo un lungo silenzio, prima dell’alba la passerella di legno che collegava Gherbiana col quartiere del Municipio – la sola ad essere rimasta su, con il vecchio ponte del Borgato – risuonò dei passi dei primi partigiani, quelli della Divisione Alpi. E la gente si affacciò ad accoglierli con gioioso senso di liberazione, ma anche con sbigottimento di fronte alle ultime distruzioni volute dalla rabbia degli sconfitti.

E i partigiani finalmente “calano al piano”
Applausi, abbracci, lacrime per quei ragazzi scesi finalmente dalle montagne con volti fieri, barbe lunghe e dissimulata stanchezza; con armi d’ogni tipo e foulard colorati. Sulle strade squarciate da buche e disseminate di sporcizia passarono e ripassarono gruppi, auto e moto non più ostili.
Il capitano Scimé s’insediò subito in Municipio e dispose per la sorveglianza ai nodi stradali e ferroviari, alle poste, ai telefoni, alla centrale elettrica, alle carceri. Alle otto del mattino il CLN “per volontà e azione di popolo” già nominava formalmente Scimé capitano comandante della Piazza, ratificava la nomina di Bartolomeo Gregorio a capo della Polizia, dava disposizioni per un prossimo insediamento di sindaco e Giunta e per la costituzione di Commissioni per l’economia, la giustizia, l’epurazione; si occupava dell’ordine pubblico e dei problematici rifornimenti annonari e, naturalmente, stilava proclami.
Verso le nove ecco da Briaglia, Vico e Carassone la squadra di Guido Somano; a Piazza la brigata Garibaldi scesa dalla val Corsaglia; e quelli della brigata Casotto, IV Divisione Alpi. Alle dieci si udì giù da Piazza verso Breo il canto marziale dei trecento della “Castellino” guidati da Renzo Cesale.
Intanto taluni cittadini sospettati di collaborazionismo con gli occupanti venivano stanati e mostrati dalla loggia del Comune a una folla eccitata, poi condotti al carcere di Piazza. E ad una ventina di donne e ragazze che a voce di popolo si erano compromesse coi nazifascisti vennero rasati i capelli. Nel pomeriggio di quel primo giorno di libertà, si pensò però anche ai sei civili uccisi la sera prima sulla collina: e fu il primo di una serie di funerali affollati e commossi.

Sfilate, sepolture e macerie; ma la vita riprende
Il mattino del 1º maggio al Santuario vennero sepolti i quattro della famiglia Prato; il pomeriggio a Breo i quattro partigiani folgorati dai nazisti a Piazza. Ma quel giorno si volle ripristinare anche la festa dei lavoratori. Tra uno sventolio di bandiere, il sindaco Silvestrini parlò allora con calda oratoria della libertà calpestata e riconquistata con la lotta e i sacrifici; parlò della giustizia e della democrazia, dei diritti dei lavoratori e dei rischi dello sfruttamento. Parole finalmente in libertà che diedero un senso a tante trepidazioni e sofferenze e aprirono i cuori alla fiducia. Intanto a sera apparvero sui muri i manifesti dei partiti democratici usciti dalla clandestinità; poi arrivarono i primi giornali: un foglio appena, su povera carta ingiallita, ma ricchi di considerazioni, di sfumature e di voglia di dire dopo il lungo bavaglio. E con i giornali arrivò anche l’annuncio che presto sarebbe cessata la funzione di governo dei CLN perché i poteri sarebbero passati al Governo Militare Alleato.

Processi ed esecuzioni
Farina e la sua banda, imprigionati a Piazza, vennero processati il 5 maggio dal Tribunale Speciale. La sentenza fu di morte per Farina, Bianchini, Bonaccorsi e l’Osella; ma l’esecuzione venne sospesa per disposizione del Comando Alleato comunicata di persona dall’avv. Guido Verzone. Tuttavia, quella notte, mentre ai “Tre Limoni” si danzava in onore dei partigiani, i quattro condannati furono prelevati dal carcere e fatti trovare, il mattino seguente, uccisi in piazza d’Ellero, davanti all’edicola. Spettacolo tragico, guardato con un senso di orrore e di pietà mescolato a quello della giustizia umana che aveva infine colpito: così come, in piazzale Loreto a Milano, aveva colpito Mussolini, Pavolini, Farinacci, Mezzasoma, Barracu, Zerbino e Claretta Petacci.
Alle 11 di quella stessa domenica, in Duomo, il vescovo Briacca, che in tutti quei drammatici mesi si era dato molto da fare per contenere gli orrori della lotta, celebrò una Messa solenne con Te Deum di ringraziamento, presenti le nuove autorità e il popolo cattolico. Il grosso dei partigiani era però a Cuneo per una grande sfilata, bissata nel pomeriggio a Mondovì, in un tripudio di colori e di fazzoletti. La sera, poi, via le schermature dalle finestre, basta oscuramento.
Tutti fuori a godersi i lampioni accesi, anche se il coprifuoco sarebbe stato abolito solo la settimana dopo. Giorni pieni d’emozioni contrastanti, indimenticabili. Sollievo e aria di festa, voglia di tornare ad esprimersi, di ritrovarsi, di guardare avanti; ma anche presa di coscienza di gravi difficoltà.

Problematico ritorno alla normalità
Preoccupavano le comunicazioni interrotte, i problemi d’approvvigionamento, la violenza da contenere, la giustizia da ristabilire al di sopra delle vendette sommarie. Per tornare alla normalità occorrevano posti di lavoro, alloggi, aiuti per l’assistenza e la sanità. E la vita amministrativa e politica era da organizzare secondo regole democratiche tutte da definire. Intanto ci si leccavano le ferite, si contavano lutti e sacrifici. E si attendeva con ansia crescente il ritorno di prigionieri, internati e dispersi.
I partiti, usciti dal tunnel della dittatura, dell’occupazione e della clandestinità, tenevano le loro prime riunioni. I più anziani si richiamavano ad esperienze lontane, preziose ma non più tutte attuali; gli altri erano all’Abc della politica. Per tutti era un affacciarsi su un mondo nuovo.
Quanto ai partigiani, alcuni avevano dato subito l’addio alle armi per tornare al lavoro o allo studio; ma trovavano duro ricominciare. Altri rivolgevano i loro slanci verso impegni civici o politici. Altri si tenevano in allenamento per eventuali nuove lotte, e oliavano le armi nascoste e non tutte riconsegnate. Altri ancora, ritenendo d’aver già dato molto, si tenevano in disparte, ma si sentivano incompresi e non valorizzati. Tendevano a ripiegarsi su se stessi, sui ricordi, le delusioni, i malumori.
Sul senso e il frutto della lotta si veniva sviluppando anche da noi una riflessione, un dibattito che lasciava trapelare un misto di ideali, di attese, di frustrazioni, di difficoltà a rientrare nei ranghi, addirittura a farsi capire e accettare. Ma non mancava chi avvertiva l’impulso a continuare in altre forme la sua militanza, nei ruoli della vita democratica. Si ripensava alle circostanze e alle motivazioni per cui si era aderito alla Resistenza, e si venivano accentuando, a posteriori, quelle di tipo ideologico. In attesa di misurarsi in libere elezioni, i partiti di centro si sentivano collegati specie con le Formazioni autonome e cattoliche, più presenti da queste parti. Il Partito d’Azione si atteggiava a vero partito della Resistenza, a rischio di esaurirsi con essa. Le sinistre vantavano la partecipazione dei Garibaldini e lavoravano per l’avvento del marxismo, mentre sul mondo calava un nuovo clima di guerra fredda tra est e ovest.

In Comune torna la democrazia, pur sotto controllo Alleato
A Mondovì la nuova Amministrazione civica fu ufficialmente insediata il 7 maggio. Il coprifuoco cessò l’11; il 12 si seppe della fucilazione, presso il cimitero, del capostazione e di una donna, condannati come spie. Intanto tornavano nelle loro città per una sepoltura da cristiani le salme di partigiani raccolte nelle Langhe e nelle valli: Avagnina, Botto, Dardanelli, Dogliotti, Einaudi, Eula, Fenoglio, Franco, Garelli, Orsi, Quartero, Tobia... Più avanti, per ricordarli tutti, sarebbero stati posti cippi, lapidi, monumenti, ed eretti cimiteri partigiani a Certosa di Pesio, a San Bernardo di Bastia...
Sarebbero arrivate anche – non senza qualche scontento –medaglie al valore per singoli caduti, paesi e città. Per Mondovì, la medaglia di bronzo.
L’8 maggio si apprese che la Germania aveva capitolato sotto un cumulo di macerie, che Hitler era morto suicida nel bunker, e che la maledetta interminabile guerra era finita, almeno in Europa (il Giappone si sarebbe arreso solo il 2 settembre, dopo le atomiche su Hiroshima e Nagasaki del 6 e 9 agosto).
Il 14 maggio, venticinque militari delle Forze alleate arrivarono in jeep a porre Mondovì sotto il controllo del Governo Militare Alleato e non più sotto quello del CLN. Era un regime d’occupazione anche quello, ma del tutto diverso da quello nazifascista. Adesso si voleva favorire il processo di restaurazione democratica e sostenere il Governo nazionale nell’amministrazione del Paese. In città avrebbe operato fino agli sgoccioli del 1945.

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8 - DOPO LA GUERRA CRUDELE, L’IMPEGNO DELLA RICOSTRUZIONE

Ritorno alla normalità, tra tensioni, disoccupazione e malumori

Lunghe attese per i prigionieri. E molti non tornarono
Per i primi rientri di prigionieri e internati dalla Germania e dalla Polonia si dovette attendere l’estate. Arrivarono al Brennero affamati e sfiniti, cercando di nascondere le lacrime. Ad accoglierli trovarono una delegazione della POA monregalese: don Angelo Ferrua, don Beppe Bruno, don Renzo Miglino, ex-internato pure lui. Poi, come mettevano piede alla stazione di Mondovì si chinavano a baciare la terra. Ma quattordici di loro mancavano all’appello.
Tornarono intanto dall’Africa, dall’Inghilterra, dall’India, dall’America pure i militari reduci dai campi di concentramento alleati. Solo dalla fine d’agosto portarono la pelle a casa i primi prigionieri italiani in Russia: 150 grandi invalidi militari, cinque dei quali della provincia di Cuneo; ma le prime tradotte di alpini giunsero solo da ottobre; gli ufficiali inferiori dal luglio ‘46; quelli superiori dal mese dopo (Stalin aveva voluto attendere la risposta degli italiani al referendum Monarchia-Repubblica...).
I tre generali comandanti le Divisioni Alpine poterono rimpatriare dalla Russia solo nel 1950, mentre alcuni prigionieri, tra cui padre Bravi, furono trattenuti addirittura fino al 1956 perché considerati dai russi criminali di guerra. Moltissime “Penne nere” non rividero più la loro terra. E per decenni ci fu chi continuò ad attendere, ad aspettare invano notizie dei “dispersi”.

Dall’inferno dei lager
Dopo sedici mesi d’inferno nel lager femminile di Ravensbruck, Lidia Beccaria rientrò sul finire dell’estate ‘45. Si tratteneva dal raccontare: temeva di non essere creduta. “Quando tento di farlo – scriverà poi – mi accorgo che gli altri mi guardano perplessi, dubitano della mia integrità mentale. Un muro si leva tra me e il mondo”. Un muro sperimentato anche da tanti altri reduci dall’inferno. Lidia uscirà gradualmente dalla sconsolata riservatezza per testimoniare sempre più apertamente nei libri, nei molti incontri, nell’azione politica, sociale e culturale la necessità di ricordare, capire, resistere, impegnarsi.
Nel maggio ‘46 l’avvocato Piero Garelli, azionista ed ex-presidente del CAI, venne dichiarato ufficialmente deceduto a Mauthausen il 23 aprile ‘45: cioè pochissimi giorni prima che finisse la guerra. Un mese prima, Garelli aveva visto morire nello stesso lager Guido Calleri, suo compagno d’ideali e di sventura.
Non appena riprese le pubblicazioni, la “Gazzetta di Mondovì” scrisse: “I reduci tornano alla spicciolata, senza canti, senza sorrisi. Non vogliono né la carità né l’indifferenza. Riàbbiano, questi fratelli, il loro posto di responsabilità e di lavoro”.

Rispuntano i giornali
Dal 29 settembre ‘45 tornò in edicola, con due sole pagine, il settimanale diocesano L’Unione Monregalese. Diretto da don Giorgio Gasco, rese per prima cosa omaggio al buon senso, alla comprensione, alla dirittura delle forze partigiane, “a fronte del tradimento di quegli italiani che avevano collaborato con gli occupanti tedeschi”. Poi, il 22 dicembre, uscì di nuovo la Gazzetta di Mondovì, dopo un silenzio coatto di diciotto anni. Anch’essa a due pagine, redatta e stampata dal dott. Enrico Fracchia e diretta dall’avvocato liberale, Egidio Fazio, cui sarebbe succeduto dal luglio ‘46 l’avv. Benedetto Dardanelli. Tra i primi vicedirettori, due ex partigiani: il prof. Giovanni Bessone e il prof. Luigi Tozzi.

Memorie e riflessioni

Benché smobilitate, le Formazioni continuarono a pubblicare i loro Notiziari nati nella clandestinità. E tra i partigiani tornati alla vita civile si sviluppò il dibattito sul senso e sul frutto della loro lotta, evidenziando un misto di attese, di impazienze, di frustrazioni, di difficoltà a rientrare nei ranghi, a farsi capire o, all’opposto, la convinzione di “aver già dato abbastanza”. Se qualcuno scelse di porsi ai bordi della strada, altri continuarono però a dare il loro apporto alla nascente democrazia operando nella società, nelle amministrazioni, nei partiti, nei sindacati. Ripensando alle motivazioni della loro adesione alla Resistenza, accentuarono, magari a posteriori, quelle di tipo ideologico. E ciò accese le differenziazioni, in aggiunta a quelle dovute a mentalità, esperienze, dislocazioni diverse. “La guerra partigiana – avvertì in proposito Dino Giacosa nel ‘45 – non è stata un episodio isolato e sporadico, ma l’atto di volontà di un popolo. La sua funzione è stata: eliminare in Italia il regime fascista; liberare il suolo nazionale dal nemico; fiancheggiare le forze alleate; salvare il diritto dell’Italia antifascista in guerra”.
Comandanti e semplici partigiani, parroci e sindaci fissarono in pagine comunque preziose la memoria di fatti e atmosfere. Ad esse si aggiunsero via via opere toccanti sulla guerra e sull’inferno dei lager, raccolte di lettere dall’ ”ultimo fronte”, testimonianze sulla “strada del davài”, diari e dossier di documenti utili ad una storia approfondita. E, sul piano letterario, si approdò – specie con Beppe Fenoglio, ma anche con Mario Donadei... – a racconti che, rifuggendo infine dalla retorica, conservano un valore molto alto per stile e capacità di penetrazione umana e storica di ciò che furono veramente – nelle luci e nelle ombre – quella lotta, quei fatti, quei protagonisti, quei comprimari.

Dalla Giunta Silvestrini un appello alla solidarietà

Fin da subito la Giunta Silvestrini si tuffò in un mare di problemi concreti e assillanti; e volle coinvolgere la popolazione con un accorato appello alla solidarietà e al senso di responsabilità. Per non affogare in quel mare occorreva scuotersi ma anche piegarsi alle dure necessità del momento e rientrare al più presto nell’ordine e nella disciplina. Mentre si contavano i caduti e si attendevano dispersi e prigionieri, c’era da pensare ai ponti distrutti, all’approvvigionamento annonario, all’economia prostrata, alla disoccupazione, alla violenza da contenere, alla giustizia da ristabilire. E ai debiti accumulatisi nel tempo anche a causa delle spese per le truppe tedesche e fasciste. Così la Giunta pensò ad un’ imposta di solidarietà cittadina a sostegno dell’assistenza e della ricostruzione, ed invitò ad una più severa disciplina dei prezzi, ad una cessazione degli abusi e degli atti individuali di violenza e di rappresaglia.
Con l’avvicinarsi dell’inverno ‘45, il sanguigno sindaco Silvestrini lanciò un nuovo allarme al Comando Alleato, al prefetto, al CLN. La disoccupazione – scrisse – si faceva sempre più critica e preoccupante. Ottocento persone erano senza lavoro, molti invalidi e vecchi erano senza pensione, e l’Ente comunale assistenza era poverissimo. Il malumore era ”tanto e pericoloso” per l’ordine pubblico, pur con tutta la buona volontà posta nel fronteggiare la situazione. Nonostante i limiti, la ricostruzione era però avviata, anche nello spirito pubblico. Intanto si ottenne in città qualche corsia preferenziale per un posto di lavoro e una sezione speciale d’esami per quanti, dopo l’8 settembre, avevano lasciato i libri per il fucile. E non mancarono polemiche per alcuni candidati ritenuti di parte contraria.

Nel 1946, elezioni e referendum
Gli Alleati restarono in città e in provincia fino al 31 dicembre ‘45; poi lasciarono l’amministrazione dell’Alta Italia al Governo italiano. Allora il prefetto Verzone fissò al 17 marzo la data per le prime libere elezioni amministrative comunali, cui sarebbero seguite il 2 giugno quelle per l’Assemblea Costituente e il referendum Monarchia- Repubblica.

Processi a repubblichini e favoreggiatori
In quello stesso giugno la Corte d’Assise di Cuneo processò la banda Farina, accusata di aver partecipato a rastrellamenti, arresti, cattura di di prigionieri, requisizioni illegali, saccheggi, omicidi di partigiani in Mondovì e dintorni. E condannò Bidoli e Zani a 30 anni, Santini a 18, Serra a 12, Vaccari, Malandrini, Libbra a 8, Poli a 5. Altre condanne comminò a otto brigatisti neri di Anzicora Canessa, macchiatisi tra l’altro di una decina di fucilazioni a Roccaforte.
Nell’ottobre ‘47 toccò all’ex commissario prefettizio di Mondovì Annibale Monferino d’essere processato a Cuneo, con l’ing. Nicoli, il pianfeiese C. Bongioanni, il dott. Cauvin. Numerosi i testimoni d’accusa, ma anche altri a favore. Nicoli, Bongioanni, Cauvin furono assolti per non aver commesso il fatto, e Monferino per mancanza di prove. Il mese dopo andò sotto processo la banda Rizzo, quasi tutta latitante, per le crudeltà commesse tra Ceva, S. Michele, Carrù, Trinità.

Al valore dei monregalesi, una Medaglia di bronzo
Per la sua partecipazione alla Resistenza, Mondovì ottenne la Medaglia di bronzo al Valor Militare. Se ne sentì lusingata, ma anche un po’ sottovalutata (come Castellino e altri centri che avevano molto pagato e si attendevano di più).
Bella comunque la motivazione, incisa su una targa presso il Municipio: “Per tutta la durata della Lotta di Liberazione, dai suoi inizi alla fine vittoriosa, la Città di Mondovì con il valore dei suoi partigiani, con il sacrificio dei suoi numerosi Caduti, con il fermo e coraggioso contegno della popolazione tutta della città e delle campagne dimostrava in modo esemplare la sua devozione alla Patria ed agli ideali di libertà”.

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La guerra ingoiò 360 monregalesi

Molto alto il prezzo di vite umane e di sofferenze pagato dai monregalesi alla folle guerra voluta dal fascismo. 224 i soldati caduti della sola Mondovì fra il giugno 940 e l’estate 1943 : soprattutto in Russia, dove morirono 176 alpini di Mondovì e migliaia del Monregalese. La lotta di liberazione, nella quale in vario modo la popolazione fu coinvolta, poté contare sulla partecipazione attiva di alcuni capi prestigiosi e su quella di circa trecento partigiani. Fra questi, 58 furono i caduti. Inoltre: sei deportati politici e cinque deportati razziali morirono nei campi di sterminio. Otto furono i caduti militari, 14 i militari internati morti nei campi di concentramento. Diciotto le vittime civili. Per la sola Mondovì, un totale doloroso di 109 caduti nel periodo settembre ‘43 - aprile ‘45, escluse le vittime di mitragliamenti e bombardamenti alleati, che furono una decina. In tutta la guerra, i caduti monregalesi furono circa

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