Culture Club Anni ’70.

Una panoramica sulle recensioni cinematografiche dell'Unione alla fine degli anni '70. Il Culture Club prima del Culture Club.

Alcune settimane fa avevamo esaminato una pagina di Cinema Guida, rubrica dell’Unione Monregalese del 1979 che potrebbe essere avvicinata, per certi versi, al nostro Culture Club quarant’anni fa: ovvero la pagina dell’Unione che si occupava di cultura pop, limitatamente allora al cinema – fumetti, serie tv, musica pop erano per il momento meno considerati.

Dato che la cosa ci ha interessato, abbiamo provato a replicare l’esperimento ampliandolo, e siamo andati a spulciare vari numeri di quel periodo sul finire degli anni ’70, per provare a fare una analisi di nuovo senza pretese di completezza, ma un po’ più ad ampio raggio.

Il cinema, in genere.

Ma, insomma, cosa ci consigliava il Culture Club anni ’70?

I film significativi di quegli anni tutto sommato vengono accolti in tono positivo: la critica di una certa vuotezza di trama di Grease
(1978) è un giudizio “severo ma giusto”, Rocky
(1976) viene apprezzato per la morale anche oltre al tema dello sport (e, tutto sommato, ci si sarebbe potuta attendere una condanna per alcuni elementi etichettabili – erroneamente – come violenti) e perfino Tutti gli uomini del presidente (1976) di Alan Pakula, sul Watergate del 1972, è accolto in positivo, salvo la critica all’uso del turpiloquio anche blandamente blasfemo. Non c’è quindi, come ci si potrebbe magari anche attendere, una piaggieria a favore del conservatorismo americano di Nixon e soci.

La satira di quel grande umorista ebraico che è Mel Brooks, nonostante la sua irriverenza anche nei confronti della Chiesa, viene apprezzata come una visione gradevole e accettabile (magari il recensore non ha visto il celebre spezzone dell’Inquisizione Spagnola, oppure gli va bene così) e si parla bene de L’ultima follia di Mel Brooks (1976; titolo originale: Silent Movie, che va a parodiare i film del muto).

Luis Bunuel, comprensibilmente, suscita più dubbi e resistenze, ma va riconosciuto il tentativo del recensore di equilibrare la critica etica inevitabile verso Bunuel – certo non tenero nei confronti della religione – col rispetto di un prodotto culturale valido. Pare che il recensore (che si spreca anche un po’ di più in una recensione lievemente più articolata), parlando di Quell'oscuro oggetto del desiderio (1977) riconosca in positivo la critica alla borghesia che è il fulcro del cinema bunueliano, ma non gli esiti nichilistici di tale critica stessa. Mel Brooks e Bunuel sono due dei rari autori citati: non c’è ancora grande consapevolezza della politique des auteurs teorizzata da Truffaut nel 1955.


Il cinema, di genere

E cosa succede se passiamo a vedere cosa si dice del cinema di genere, quella fantascienza e quel fantastico che ci sono particolarmente cari come fondamento di tutta una nuova cultura pop? Anche qui, si nota un atteggiamento abbastanza aperto.

Guerre Stellari di George Lucas (1977; non ancora “Star Wars”, tanto meno “A new hope”) riscuote un certo apprezzamento. Nella sua solita sintesi, il recensore – uno o più? Lo stile spesso sembra differente – coglie qui vari spunti effettivamente presenti: l’epica classica, quella cavalleresca, il western (in fondo, tutte evoluzioni di un certo comune spirito dell’epos che SW proiettava nel suo classico “futuro passato”, tanto tempo fa, in una galassia lontana lontana). Interessante il riferimento al fumetto, in positivo, mentre ancora oggi sono spesso usati come paragone dispregiativo per un film; il tema dell’horror è forse quello meno azzeccato, probabilmente in connessione ai due villain, Darth Vader (o Lord Fener, allora) e l’Imperatore. Comunque una sintesi non malvagia, per un giornale comunque “di provincia”, nel solito stile supersintetico che non sfigurerebbe su Twitter.

Buon stampa anche per Il fantabus (1976) di James Frawley, una piccola chicca di fantascienza comica di quegli anni (un bus ad alimentazione nucleare, osteggiato dalla classica multinazionale malvagia che tenta di sabotarlo) è tutto sommato presentato in chiave positiva, e positiva senza riserve la lettura di Godzilla, di cui si colgono anche, giustamente, le tematiche ecologiche. Viene solo il dubbio se si tratti di una riproposizione dell’originale del 1954 o in uno dei capitoli successivi della serie (dal 1971 al 1975 ne escono uno all’anno), di cui si è omesso il titolo corretto.

Il cinema degenere: una battaglia culturale tra luci ed ombre.

Tutto bene, tutto pacifico, senza problemi, allora? Beh, no. Si nota in molti punti una concezione – anche legittima – di battaglia culturale piuttosto aspra contro tutto ciò che non è allineato.

Se agli “uomini del presidente” si lascia passare un po’ di turpiloquio, non si salvano invece le Sturmtruppen (1976) scritte da Renato Pozzetto ispirandosi al fumetto di Bonvi del 1968, in virtù di un finale effettivamente di anticlericalesimo piuttosto forte che, mi pare, non trova riscontro diretto nel fumetto originale, che possiede un umorismo cupo e corrosivo ma lontano dal facile colpo ad effetto. In pratica, il Papa nel finale del film uccide un milite pacifista, denominato il Milite Ignoto, con un’ostia avvelenata. Una scena che, curiosamente, appare alcuni anni dopo, nel 1986, nel fumetto V for Vendetta di Alan Moore, a parti rovesciate: V uccide il vescovo collaborazionista dei fascisti con un’ostia al cianuro. Lì, però, serve appunto a connotare V come un vendicatore non positivo, nemico di un sistema totalitario ma completamente delirante, e potrebbe avere un suo senso: e curiosamente, a parti invertite, nel film tratto dall’opera nel 2005 la scena viene invece eliminata.
Verso Sturmtruppen si somma poi l’accusa di una certa volgarità di fondo, che nel fumetto originario di Bonvi è presente, ma usata con grande abilità per mostrare, in sostanza, che la guerra è merda e non ci sono tanti modi delicati per dirlo, mentre qui si riduce a un boccaccesco di maniera e di bassa lega. Spiace l’assenza di distinguo tra fumetto e film, ma sarebbe qui davvero fantascienza pretenderlo (ancora oggi, nemmeno sulla stampa specialistica c’è questa cultura per i cinecomics). Del resto Bonvi aveva di fatto avallato il film, partecipando anche con una comparsata.

Meno giustificato (almeno, secondo noi, per stile) è il livore verso filmetti poco memorabili dallo scandalismo facile, verso cui il recensore non sembra buon lettore di Oscar Wilde (“meglio che si parli male di me, che non se ne parli affatto”): descrivere questi film come “scabrosi, allusivi, orripilanti, efferati, inaccettabili e sadici”, quasi fosse Lovecraft che descrive l’apparizione di un Grande Antico, rischia di imbellettarli agli occhi del pubblico alla ricerca di facili emozioni (e la loro qualità, di gran solito, è invece dozzinale, bassa e fiacca). Magari un atteggiamento più blasé e maggior spazio alle proposte positive (che questo CC-’70 individua: non c’è chiusura talebana a ogni intrattenimento, anzi) sarebbe stata più utile.

Colpisce tuttavia il fatto che non è un atteggiamento monolitico: ad esempio un film indubbiamente venato di spirito anticlericale come “In nome del Papa Re”
(1977) viene tutto sommato accolto con un certo possibilismo, anche se con una certa sofferenza e indulgendo poi di nuovo al gusto dell’aggettivazione emotiva (negazione integrale, viscerale, cieca...).

Più chiuse ma ancora polemicamente accettabili le considerazioni su “L’Agnese va a morire” (1976), accusato di troppa parzialità per la Resistenza marxista, sottacendo per il recensore quella cattolica. Una richiesta di “cerchiobottismo” che non si può avanzare verso un’opera artistica, e che al limite si poteva integrare, ancora una volta, con una recensione più articolata, che approfittasse del tema per allargare il discorso senza ricorrere a un manicheismo opposto a quello di cui si accusa il regista, Giuliano Montaldo (e implicitamente l’autrice dell’opera letteraria, Renata Viganò). Una critica radicale, va sottolineato, “da sinistra” cattolica: non si contesta l’esaltazione della Resistenza, ma la pretesa di egemonia marxista. Todo modo (1976) di Elio Petri, tratto dal romanzo di Sciascia del 1974, è invece di nuovo liquidato con disprezzo, al pari dei film di puro consumo erotic-noir contro cui il recensore ama scagliarsi.

Se una certa difesa d’ufficio della cultura cattolica è legittima e comprensibile (anzi, il limite è che andava forse condotta in modo più attrezzato e con più ampia argomentazione) è francamente imbarazzante certo greve antifemminismo che traspare in alcune recensioni. Non una visione critica del processo in corso, che sarebbe comprensibile: battute da bar, o oggi da post su facebook.

La recensione di “Una donna chiamata moglie” (1974) viene usata per una tirata pro angelo del focolare e contro il femminismo, il tutto lasciato cadere così, en passant, come considerazione scontata a margine di un film (provincialissima poi la pezza d’appoggio di un anonimo “critico laico”). Ma peggio ancora la recensione a “Io sono mia”
(1977) dove si accenna a chiare lettere all’inferiorità della donna in ambito artistico, invece di avanzare critiche specifiche al film, che sarebbero legittime.

Un raro articolo “di fondo” sul cinema, del resto, chiarisce una certa delusione per l’assenza sotto Natale di film “per famiglie”: il recensore, con un po’ di realistico scoramento, capisce che i gestori delle sale debbano anche proiettare film pruriginosi per un pubblico che non ha ancora a sua disposizione il lato oscuro (e nemmeno tanto oscuro...) di internet, ma rivendica almeno a Natale un film per famiglie adatto a tutti. Dato che i suoi gusti non sembrano così retrivi, alle volte, viene quasi da dargli ragione.

Per contro grande enfasi positiva, tutto sommato legittima anche se un po’ sproporzionata rispetto allo stile telegrafico riservato alle altre produzioni, sui film di Franco Zeffirelli a fondo cattolico: il Gesù di Nazareth (1977) e il Fratello Sole, Sorella Luna (1972) che celebra Francesco d’Assisi. Un endorsement che credo abbia avuto una certa influenza sulla cultura cattolica locale (o, viceversa, esprimeva un apprezzamento sentito verso l’opera zeffirelliana, indubbiamente valida) perché ricordo frequenti riproposizioni di tali film all’interno di momenti variamente catechistici – ma anche scolastici – nella mia infanzia degli anni ’80. E in fondo, in positivo, è la dimostrazione che un nucleo di cultura cinematografica c’è: il cinema non è liquidato come un fastidio da minimizzare, ma come un potente mezzo espressivo da utilizzare. Certo, sembra restare spesso la tentazione dell’approccio più facile: censurare (anche solo verbalmente) più che spiegare, motivare, far capire ed educare all’immagine.

E per chiudere, una profezia?

Chiudiamo con un’altra polemica generale di questo Culture Club di quarant’anni fa, rivolta questa volta alla TV, ma non per l’immoralità dei programmi (siamo del resto prima del grande boom delle private) ma per lo spezzettamento eccessivo dei serial televisivi. Una preoccupazione per la frantumazione che a noi, figli di Youtube, Netflix e dello streaming, pare indubbiamente ingenua. Indubbiamente però, in modo seminale, coglie una linea tendenza che oggi, col gusto del binge watching, con la sudditanza al flow incontrollato di contenuti su facebook, col calo verticale della soglia di attenzione col passare delle generazioni, enuncia un problema meno peregrino di quel che potrebbe sembrare. Il cinema – come ogni arte – richiede tempo, attenzione, un minimo di approfondimento: una degustazione accurata e acculturata.

Il problema è che, forse, un po’ frammentaria era anche la linea culturale di quel culture club seminale, quella Cinema Guida non priva di intuizioni valide ma anche di qualche caduta di stile, e in generale carente, ci pare, di una organica visione d’insieme e spesso troppo schiacciata su un giudizio tranchant e apodittico. Ma del resto non ci sentiamo di essere troppo severi: chissà come giudicherà, nel 2058, un futuro lettore queste nostre in fondo asistematiche note di cultura pop dei giorni nostri, se mai si prenderà la briga di esaminarle.

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