La favola avveniristica di Blade Runner

Uno dei titoli più influenti nella storia della fantascienza torna dopo oltre 30 anni, con un sequel che proietta la sensibilità replicanti nel cinema del nuovo millennio

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TRAMA

Anno 2049: i replicanti sono ormai integrati nella società, uno di essi è l’agente K inviato a “ritirare” uno dei replicanti ribelli Nexus, che prima di morire afferma di aver assistito a un miracolo; prima di fare ritorno in città K recupera una cassa sepolta sotto un albero al cui interno è contenuto lo scheletro di Rachael un vecchio Nexus femmina morto di parto cesareo. Joshi il capo di K è sconvolto dalla notizia, che dimostrerebbe la possibilità dei replicanti di riprodursi; per eliminare qualsiasi prova e problemi manda l’agente a “ritirare” il figlio della replicante. Niander capo della Wallace Industries, anche lui a conoscenza dei fatti, intende approfittare della situazione, invia così la sua tirapiedi Luv a pedinare K, che durante la ricerca trova degli indizi che collegati ai sui ricordi artificiali impiantati gli fanno sospettare di essere lui stesso il figlio della replicante che stava cercando…

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La storia si colloca a 30 anni esatti dal primo Blade Runner ambientato nel 2019, nato dalla penna di Philip K. Dick e reso un cult sul grande schermo da Ridley Scott nel 1982, è ora affidato al regista Denis Villeneuve (fresco di fantascienza impegnata con “Arrival”) il compito di traghettarlo nel nuovo millennio, mantenendone i tratti distintivi ma permettendogli di camminare comunque da solo. All’avanguardia sul piano visivo come innovativo era stato il suo predecessore , i suggestivi i richiami cromatici caratterizzano distintamente i diversi scenari, prevalgono giallo, blu e bianco, che grazie a un uso magistrale della fotografia giocano con le sfumature del medesimo tono, abbracciando gli stati d’animo dei personaggi, trascendendo l’immagine in sensazione, liberandola dal suo ruolo illustrativo trasformandolo in emotivo; la profondità tridimensionale dei paesaggi e soprattutto gli ologrammi in movimento, consentono un immedesimazione diretta in questa realtà, dove le invadenti pubblicità giganteggianti sulle facciate dei grattacieli velati dalla pioggia rievocano le atmosfere del suo capostipite, omaggiandolo e proiettandolo in una nuova era.  I luoghi dove si svolge la vicenda sono anch’essi ben delineati e caricati di significato, affascinanti e diametralmente opposti: la città sovrappopolata e cuore pulsante, viene ripulita divenendone luogo accogliente, distante anche ideologicamente dagli ambienti desolati e scarni dove si avventura K, in uno stato di estraniazione portato dai ruderi e dalle sculture dal sapore antico presenti in essi, appartenenti ad un tempo passato, vicino negli anni, ma lontano per eventi ,capaci di favorire la crescente solitudine e i nuovi dubbi dell’agente, la sua indagine sui fatti diviene ricerca interiore, e mentre gli avvenimenti mancanti resteranno un mistero, avremo invece chiarezza sull’animo del replicante.

Attesa più che movimento, silenzio più che dialogo, un ritmo e una maniera di raccontare più vicina al cinema orientale, lento ma mai noioso, riflessivo ed intuitivo, e se l’immagine ha il compito di offrirci la parte emotiva, il non mostrato ha quello di completare la storia, lasciando all’attenzione dello spettatore e alla sua capacità di ricostruzione l’incarico di comprenderla, come in “Arrival” anche qui Villeneuve ha voluto che il percorso di indagine del protagonista venisse sensorialmente condiviso col pubblico, e se la trama segue una direzione lineare, bisognerà tenere in considerazione anche la sua ambiguità. Corpo centrale della vicenda è il desiderio da parte dell’intelligenza artificiale di raggiungere lo status di essere vivente, un grande classico rimasto sempre attuale, di notevole interesse e in continua evoluzione, che appunto con Blade Runner  raggiunse le vette più alte, ora questo spirito si è rinnovato, evolvendosi nel pensiero ma anche nel campo biologico, la consapevolezza di un’individualità e di un anima riguarda non solo i replicanti ma viene estesa anche agli ologrammi, consapevoli della loro condizione ma sicuri della loro essenza; l’invidia nell’impossibilità di creare la vita è argomento affrontato recentemente dallo stesso Ridley Scott in Alien: Covenant, il cui discorso imbastito vede ora il suo completamento nel miracolo che avviene in questo film. L’artificio che prende vita, l’impossibile che si avvera, come una favola dai tratti avveniristici che si avvicina alla fantascienza sentimentale che abbiamo incontrato in passato con pellicole come “L’uomo bicentenario” e soprattutto con “A. I. Intelligenza Artificiale” con cui ne condivide ritmi e metafore, il piccolo robot del film di Spielberg non è molto differente dal replicante protagonista di Blade Runner 2049, entrambi sono coscienti del proprio stato, dubbiosi della loro reale natura covano malinconici la stessa speranza, con l’elemento fiabesco del bambino vero di Collodi nel proprio intimo, ambedue in attesa dell’arrivo della fata turchina che li trasformi da burattini in persone vere. 

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