A come acqua.
L’acqua è fondamentale per la vecchietta. Te la chiede ogni momento.
Non puoi allontanarti un minuto, andare – che so – a fumarti una sigaretta sul balcone: lei ti chiama e ti chiede l’acqua. La terrorizza l’idea di restare senza acqua. E per forza, pensi tu. Acqua è una parola indoeuropea, erede diretta del latino aqua(m). Mica per niente hai studiato filologia romanza e glottologia. Le hai studiate per capire il terrore di quella vecchietta, che dalla sedia a rotelle non riesce a prendere la sua bottiglietta di plastica, che tu – deficiente – le hai piazzato troppo fuori mano.
La bottiglietta H20. La bottiglietta con il contenuto liquido possibilmente frizzante – frizzante fa passare di più la sete, fa digerire e rende meno schifosa la vita immobilizzita, la mancanza di autonomia e tutto il resto.
Frizzante deve essere l’acqua, con il suo nome latino quasi inalterato… Beh, oddio, inalterato.
In italiano, forse. Era già acqua in San Francesco, nel Cantico delle Creature – ma non era frizzante, era solo sorella. Da allora acqua è rimasta – passando attaverso le chiare, fresche, dolci acque del caro Petrarca e le centinaia di acque che hanno sciacquato, slavato e annacquato la tradizione letteraria italiana.
La vecchia però mica te la chiede in italiano, l’acqua. Lei che è una montanara delle Alpi Liguri ti chiede l’éua, oppure l’èga a seconda di quale lingua parla al momento. Sembra tutta un’altra cosa, e non lo è. La prima, éua, viene da é(g)ua che a sua volta viene da ègua che a sua volta viene da àigua, la stessa forma del catalano e del ligure occidentale; ma dalla stessa àigua si è sviluppato l’occitano àiga, diventato àigo oppure anche èga come sta chiedendo a gran forza in questo preciso istante la vecchietta che poi sarebbe tua madre.
Un momento che vado
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Ok.
Reidratazione conclusa – missione compiuta. Dove ero rimasto? Ah sì, l’acqua. Nel toscano l’ho già detto che resta inalterata? L’ho già detto che c’è solo il rafforzamento della consonante intervocalica per evitare che diventi una
Ma in sardo, uh, lì sì che cambia. Al sud no, è aqua. Ma nel sardo centrale diventa abba (un po’ come in romeno, dove è apă) e in quello del nord eva (come in piemontese, più o meno) o addirittura ea. E già con questo nome sulle labbra ti viene da canticchiare De André: e l’ea sguttesi da li muccichili cu li bai… Sì, dai, la storia dell’asina gallurese che vuole sposare un ciòanu vantaricciu e moru ma scopre che è suo cugino. Come si fa a non ricordarla? In li monti di Mola, si intitola. Tu la sai a memoria – ma va beh, tu sei solo un poveretto moderatamente classicista.
Sì, mamma, arrivo. Niente è importante come l’acqua, per una malata inchiodata alla sedia a rotelle. Mentre le sporgo la bottiglietta osservo come è rassicurante, tutta blu e trasparente. E mi chiedo: ma non potremmo bere l’éua del rubinetto, mettendola in una caraffa oblunga stile anni Settanta? No, perché la badante non la beve. Non si fida degli acquedotti italiani. Chissà cosa c’è dentro, señor. E pensare che acquedotto è una parola così latina. Aquae ductus.
La vedi già da qui, la crisi della cultura classica. Dalla mancanza di fiducia negli acquedotti da parte delle badanti ispaniche. Dallo sguardo rapito con cui i vecchietti del ricovero guardano il distributore di robe da bere. E tra le robe da bere, la più ipnotica di tutte – anche per loro – è la bottiglietta dell’acqua. A proposito, mi avete messo sete. Qualcuno ha trenta centesimi per prendere una bottiglietta blu di acqua frizzante? Giuro che domani ve li restituisco – in latino, inalterati.