Fabrizio Bosso: «Cerco il mio suono»

L'intervista con la stella del jazz italiano, che ha fatto tappa al teatro Baretti di Mondovì con il progetto “State of Art”: musica e contaminazioni, tra Hard Bop e sonorità moderne. Un prestigioso appuntamento della stagione concertistica cittadina, organizzata dal Comune in collaborazione con l'Academia Montis Regalis.

Fabrizio Bosso è un nome noto al grande pubblico, cosa non certo scontata per i musicisti jazz, la cui fama spesso resta confinata alla cerchia degli appassionati. Le innumerevoli incursioni nel pop in questo lo hanno sicuramente aiutato, ma il fatto è, semplicemente, che Fabrizio Bosso, a questo punto della sua carriera, è uno dei migliori trombettisti jazz italiani sul panorama mondiale, ed ha una versatilità e un bagaglio musicale talmente ampio da avere una straordinaria quantità di collaborazioni all’attivo, nei progetti più disparati. Varcata la soglia dei quarant’anni, Fabrizio Bosso ha deciso di tracciare un primo bilancio della sua carriera, e lo ha fatto a modo suo: mettendo insieme un quartetto con amici di lunga data e con cui ha una ferrea intesa (Julian Olivier Mazzariello al piano, Nicola Angelucci alla batteria e Jacopo Ferrazza al contrabbasso) per divertirsi, suonando brani originali o reinterpretare standards e pezzi altrui, in totale libertà. Il progetto è stato fissato su disco nel 2017, con l’incisione “State of Art” e farà tappa al Baretti di Mondovì venerdì sera, per il cartellone musicale organizzato dal Comune e dall’Academia Montis Regalis. Fabrizio ha fatto il punto con noi sul suo “State of art” in una chiacchierata a tutto tondo.

«Venerdì sarò al Baretti con una formazione con cui siamo in giro da diversi anni. Abbiamo fatto diversi tour insieme. Sul disco sono finiti brani da alcuni concerti che abbiamo fatto, ci sono registrazioni fatte a Roma, a Tokyo e a Verona. Principalmente suoneremo i brani del disco, ma è una situazione molto libera: ad ogni concerto cambiamo qualcosa nella scaletta, scegliamo brani diversi. Ad esempio negli ultimi concerti suoniamo qualche brano di Stevie Wonder, perché recentemente abbiamo partecipato come musicisti a una lezione su di lui, tenuta da Gino Castaldo ed Ernesto Assante all’Auditorium Parco della musica di Roma. Ci siamo divertiti e quei pezzi ci sono rimasti nelle dita. La regola fondamentale di questo progetto è: molta condivisione, molta responsabilità. Tutti hanno il loro spazio e si esprimono insieme agli altri, condividendo al massimo idee e creatività, al netto di ogni solismo».

Si parte da una radice Hard Bop, che è un po’ il tuo linguaggio, e cosa si va a innestare sopra?

Di tutto, influenze latine, sonorità più moderne… Siamo tutti molto attenti e molto ricettivi, ascoltiamo le nuove tendenze e riproponiamo nel quartetto quello che ci affascina. Ad esempio Angelucci, il batterista, è molto attento a queste cose e non manca mai di proporre qualche nuova sonorità da introdurre.

Quando ti lanci in una delle tue vertiginose improvvisazioni quanto c’è di istintivo e quanto di razionale nelle note e nelle frasi che suoni?

La prima cosa è la conoscenza dello strumento, base indispensabile, poi serve una bella dose di spregiudicatezza: improvvisare significa suonare “senza rete”. Ci sono delle regole, ovviamente, entro le quali muoversi ma sostanzialmente fino a quando non si chiude la frase non si sa se l’effetto è quello ricercato e tutto andrà bene. Sicuramente aiuta moltissimo avere al tuo fianco dei bravi musicisti, reattivi nel rispondere o sostenerti nei momenti di cedimento, creativo o tecnico. Per questo mi trovo benissimo a suonare con Nicola, Jacopo e Julian. Se sai di poter contare su gente così ti puoi prendere qualche rischio in più, azzardare improvvisazioni più interessanti e rischiose e la musica ne guadagna.

Nel corso della tua carriera ha collaborato con tanti artisti del pop italiano. Come ti sei avvicinato a quel mondo?

Io son cresciuto con il pop, da piccolo oltre ad ascoltare jazz ho sempre ascoltato la musica pop italiana, i cantautori come Paoli, Tenco, Vanoni, Martino… Anzi all’inizio mi divertivo a improvvisare sui loro dischi. Poi l’incontro con il pop a livello professionale è stato abbastanza casuale. Il bassista che suonava con Cammariere mi ha chiamato a suonare con loro ed è partito tutto da lì.

Quali sono le doti che apprezzi di più in un musicista?

Oltre a quelle che ho già detto, quindi l’interplay e la capacità di ascolto e dialogo musicale, un musicista deve avere un background molto ampio, non avere i paraocchi. La gente che suona con me in formazioni stabili è sempre gente molto aperta a tutte le influenze e i generi, sono persone con cui si può suonare qualsiasi cosa, non sono legati a una certa idea della musica o del jazz. Se una sera ci va di suonare un pezzo di Stevie Wonder e poi improvvisare su “Roma nun fa la stupida stasera” sappiamo che nessuno storcerà il naso, anzi tutti daranno il massimo per la buona resa della performance, cercando idee interessanti anche su queste melodie.

Tu che hai attraversato le esperienze musicali più diverse, dalla classica al jazz alla musica pop, come vedi la musica del futuro? In che direzione si sta muovendo, se si sta muovendo?

 Mah, io questo problema non me lo pongo. Io cerco il mio suono, il suono del mio gruppo e finché sto su un palco, sto bene e mi diverto per me va bene così. Non sono ossessionato dalla ricerca a tutti costi di un linguaggio nuovo, originale. Ci sono così tante possibilità espressive, c’è chi dice che la musica è morta che non c’è più niente di nuovo da dire, che il jazz è finito ma secondo me non è vero. Proprio l’altro giorno ero al concerto di Steve Wilson e Lewis Nash, ed hanno dimostrato egregiamente come si possa essere espressivi, originali, interessanti anche suonando uno standard. A me interessa prima di tutto la qualità, se la musica è di valore le etichette sono irrilevanti.

Le nuove tecnologie, che fanno si che chiunque possa accedere facilmente a tutti i generi musicali possibili, dalle Sinfonie di Beethoven ai dischi di Thelonius Monk o i concerti dei Metallica, potrebbero fare sì che la musica del futuro sia sempre più sincretica, fusione di materiali e influenze diversissime fra loro?

In realtà esempi di contaminazioni pazzesche esistono già, anche se magari non vengono molto reclamizzate e talvolta sono travisate. Ci sono musicisti jazz, ad esempio che improvvisano sui brani di musica classica, penso ad esempio al progetto di Danilo Rea e Ramin Bahrami. Io penso che si possa suonare quello che si vuole come si vuole, nel jazz è bello aprirsi a tutti i mondi possibili, naturalmente tenendo presente che il jazz ha delle caratteristiche ben precise. Secondo me se in un concerto jazz non c’è dello ”swing” o non si improvvisa fatico a considerarlo tale: su questo secondo me c’è un po’ di confusione e in passato sono stati fatti anche dei disastri. Magari poi qualitativamente è bella musica, a livello personale mi importa poco, come ho detto, dell'etichetta se la musica è buona. Penso però all’appassionato che si fa 15 giorni a Umbria Jazz, investendo tempo e denaro e magari si trova ad ascoltare, certe serate, qualcosa che non corrisponde minimamente alle sue aspettative. 

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