Big (Data) Brothers Are Watching You. Vivere alla fine dei tempi della privacy

L'impatto delle nuove tecnologie digitali sulle nostre vite è dirompente. I nostri dati personali ci sfuggono come sabbia tra le dita. I big data stanno diventando il business più importante degli ultimi anni: siamo all'anticamera di George Orwell?

Viviamo in un mondo zeppo di informazioni, in un mondo di Big Data. L’efficace espressione inglese, che letteralmente significa “grandi dati”, indica le smisurate quantità di informazioni prodotte negli ambienti digitali e accumulate nelle banche dati di imprese e autorità pubbliche. La portata innovativa dei Big Data e i loro effetti dirompenti – o disruptive, come direbbero gli anglosassoni – si estendono, quasi per rigore definitorio,a una molteplicità di contesti che coinvolgono da vicino la nostra esistenza quotidiana. Vediamo quali sono partendo da due dati.

Black Mirror è una serie televisiva di grande successo che si occupa del tema dei dati personali in rete. Ne ha parlato il nostro Lorenzo Barberis

Primo dato. Oggi, nell’età dell’informazione, l’umanità produce informazioni ovunque e in ogni momento. Secondo il filosofo oxoniense Luciano Floridi, non viviamo più vite, ma onlives, in cui la linea di demarcazione fra virtuale e reale sfuma nelle azioni e nelle relazioni quotidiane. Secondo il report Digital in 2017 condotto da We Are Social e Hootsuite, gli italiani si collegano a Internet in media per otto ore al giorno (sei dal loro computer, due dal cellulare), spendendone due di queste sui social network (Facebook, Twitter ecc.). Nel gestire queste attività online, rilasciamo una quantità incalcolabile di dati personali sotto forma di bit. Dallo stato Facebook in cui si accusa una certa stanchezza mattutina, alla fotografia del panorama notturno postata su Instagram, siamo protagonisti di una diffusione di dati personali illimitata e gratuita, cui però non diamo troppa attenzione. Anche quando non pubblichiamo contenuti sul web (foto, stati, “storie”…), ma ci limitiamo a girovagare fra una pagina e l’altra, produciamo informazioni che sono indice delle nostre preferenze.

Secondo dato. Le nostre informazioni non si disperdono nell’etere digitale, ma cadono preda degli imprenditori digitali, cioè, principalmente, delle piattaforme digitali quali Facebook. Così, questi attori privati “sanno tutto” di noi e traggono ampi guadagni dalla vendita e dal riuso dei nostri dati personali – come testimonia, peraltro, la celebre classifica degli uomini più ricchi del mondo di Forbes di quest’anno, che vede il giovane rampante Mark Zuckerberg (il fondatore di Facebook) al quinto posto. Per esempio, se cerco su Google il biglietto aereo più conveniente per recarmi a Rodi la prossima estate, la mia bacheca Facebook sarà invasa dalle inserzioni pubblicitarie degli alberghi dell’isoletta greca.

Il lato oscuro. Il rovescio della medaglia è tutt’altro che marginale per gli utenti. Ci si chiede, infatti, quale sia il valore della privacy in un mondo in cui le informazioni viaggiano in rete alla velocità della luce, da un sito all’altro, e noi stiamo lì a guardare. Secondo il “papà” di Facebook, la riservatezza è morta sotto il fuoco innovativo e distruttivo dei social network, in cui non esitiamo a spiattellare al mondo le nostre personalità. È chiaro, quindi, che la privacy non sia più sinonimo di tutela della nostra vita privata nella società dell’informazione, ma divenga un fattore meramente “tecnico”. Oggi, il vero tema è il controllo delle informazioni personali di cui altri dispongono a fini commerciali, è l’uso che altri possono farne, è la facoltà di gestire liberamente il proprio patrimonio informativo. Tutti elementi che palesano il livello di tutela della privacy. In questo senso, i social forniscono agli utenti una serie di opzioni di trattamento, che costituiscono quello che in inglese si chiama privacy management. Per esempio, Facebook consente agli utenti di limitare il pubblico dei post e di scegliere chi ha la facoltà di contattarci: basta accedere alla sezione “privacy” delle impostazioni di Facebook per farsi un’idea. Ma altre situazioni sono molto meno gestibili. Prendiamo la nascita e la morte della nostra esistenza digitale, cioè l’iscrizione al social e la cancellazione dell’account. Nella prassi, la prima fase è veloce e poco complicata: inseriamo il nome, l’indirizzo email, accettiamo i termini del servizio (di solito senza sapere di che cosa si tratta), e il gioco è fatto. Qualora però decidessimo di leggere le interminabili e astruse condizioni del trattamento dei dati personali, due ore di tempo non sarebbero nemmeno sufficienti per farsi un’idea. E non sorprende che nessuna delle più popolari piattaforme digitali abbia dimostrato interesse a una qualche semplificazione. Se poi vogliamo eliminare il nostro profilo, le cose si fanno ancora più complicate. Prendiamo di nuovo il social per eccellenza, Facebook. Secondo i termini di servizio del sito, c’è differenza fra la disattivazione e l’eliminazione definitiva del proprio profilo. Se voglio optare per la prima possibilità, è sufficiente che faccia clic sull’apposito pulsante, ben nascosto nella sezione “protezione” delle impostazioni dell’account. A questo punto, però, il social network non butta via il profilo per sempre, ma lo rende invisibile alle altre persone attive sulla piattaforma. Se invece desidero eliminare definitivamente l’account, devo comunicarlo a Facebook, che impiega fino a novanta giorni di tempo per cancellare le copie di backup dai sistemi di memoria. Facilmente desisterò dal portare a termine questa seconda operazione, notevolmente più costosa in termini di tempo.

Ma a mancanze di questo genere non diamo troppo peso, e preferiamo giustificare lo scarso controllo dei nostri dati sulla base di un non troppo razionale atto di fiducia verso i Grandi Fratelli dei dati. Insomma, dopo aver dimenticato la riservatezza, dovremo pure rinunciare a quel che rimane del diritto alla protezione dei dati in nome dell’innovazione tecnologica?

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