Deve essere difficile per una commissione scegliere chi catapultare nel gotha della letteratura. Quest’anno a Stoccolma s’è deciso di sollevare un polverone: il Nobel assegnato a Bob Dylan ha diviso i fans dagli addetti ai lavori, e non poteva essere altrimenti. Volano così parole al vetriolo nei dibattiti su due fronti. Ottusi epigoni del cantautore lanciano entusiasti corone d’alloro, mentre si indignano gli strenui sostenitori di una distinzione ontologica tra musica e letteratura, che oggettivamente risulta stantia (e non ha avuto senso di esistere): il mondo della musica applaude a scena aperta la decisione dell’Accademia Svedese, all’estero l’amico Leonard Cohen («E’ stato come conferire all’Everest la medaglia di montagna più alta del mondo») e in Italia con le dichiarazioni di mostri sacri come Guccini e Mogol; più eterogenei i giudizi degli scrittori, tra gli altri papabili candidati c’è chi la prende bene (De Lillo, tra i primi a complimentarsi) e chi un po’ meno (la stizza su twitter di Murakami è chiara); Irvine Welsh (autore di Trainspotting) con toni veementi apostrofa il premio come nostalgico e politically correct (leggasi: una paraculata), Baricco perde un’occasione per tacere su una questione (la letteratura di spessore) che sicuramente non lo riguarda.
Tra le tante voci che si mescolano e tentano di sovrastarsi, presentandosi come depositarie della verità assoluta, spicca il silenzio di Dylan, che si dimostra molto più saggio di tutti gli altri.
Partendo dal presupposto che il valore di un’opera è difficilmente quantificabile e che in una scelta si è costretti a discriminare, si possono comunque fare delle riflessioni. La commissione incaricata ha giustificato l’assegnazione del Nobel («Aver creato nuove espressioni poetiche all’interno della grande tradizione della canzone americana»): l’impatto di Dylan nella cultura popolare è stato detonante, e non si può non riconoscere il ruolo fondamentale che ha giocato nel dare vita e voce a genere di cui viene ritenuto a ragion veduta iniziatore e maggiore esponente; ecco perchè ha vinto lui e non Cohen (più poeta, più letterato, ma meno accessibile e quindi meno dirompente), o Cave (più poeta, più letterato, ma troppo oscuro e introspettivo). Detto dell’inoppugnabile rivoluzione culturale incarnata dal menestrello di Duluth, la scelta dell’Accademia (che Welsh, per certi versi, ha descritto con estrema lucidità) pone l’accento su qualcosa di inquietante: il sempre minore interesse verso la letteratura in senso stretto. Roth, Murakami, De Lillo, Kundera o Rushdie non avrebbero demeritato. E forse, con tutto il rispetto per Dylan, avrebbero avuto anche più credenziali per essere insigniti del prestigioso riconoscimento: ma, al di là di qualsiasi discussione, abbiamo un vincitore, sic et simpliciter, e le risposte alle tante domande che ci si può fare in merito a questo trionfo, beh, quelle ...blowin (“sibilano”) in the wind.