La Casa di riposo “Sacra Famiglia” cominciò nell’800 come “Ricovero di mendicità”

A 20 anni dalla realizzazione della nuova sede ripercorriamo una storia avviata nel 1843 

Mendicanti: un problema - Erano un grave problema anche a Mondovì la povertà e l’accattonaggio a metà ‘800, e lo Stato stava a guardare. Ma il pugnace monsignor Ghilardi – il primo nostro vescovo d’estrazione popolare – incentrò su di essi la lettera pastorale della Quaresima 1844 invitando tutti a sostenere quei poveretti non solo a parole ma con la realizzazione di un Ricovero articolato in quattro sezioni: per fanciulle e fanciulli a cui offrire un’istruzione professionale; per uomini e donne a cui dare la possibilità d’inserirsi in un lavoro. E aprì con 2 mila lire una sottoscrizione che fruttò un buono fondo con cui partire. Il Ministero piemontese però, laicamente diffidando dell’iniziativa partita dal mondo cattolico, la giudicò inadeguata. E taluni benpensanti non risparmiarono critiche e allarmi (“Infetteranno l’aria; Porteranno malattie; Sarà per loro una prigione; Meglio lasciarli vivere come han vissuto finora...”).
Il vescovo rispose con fermezza a tutte le obiezioni, e lanciò una gran lotteria che fruttò altre 22 mila lire. Ipotizzò come sede per il Ricovero l’ex Convento delle suore di Carassone, ma poi vi dirottò le Domenicane che fece venire per promuovere l’istruzione femminile e la preparazione delle maestre. Fu una mossa non proprio felice o non ben spiegata, che scatenò sospetti di distrazione di fondi e un braccio di ferro con l’Intendente e il Consiglio provinciale.
Pur tra sospetti e difficoltà... - Nel 1856 il ministro Rattazzi istituì per l’erigendo Ricovero una commissione laica che partì in tromba, ma si fermò presto per nuove difficoltà. Il problema dei poveri però era innegabile, come evidenziò anche il Censimento del 1871 che contò sul territorio comunale 34 mendicanti maschi e 40 femmine. Il tempo intanto passava. Ghilardi morì. Roma divenne capitale. La Commissione laica si afflosciò nella sua stessa inazione... e ai poveri non restava che attendere chissà fino a quando.
I fondi, nonostante ciò, crescevano, sia pure in misura non ancora sufficiente. Ma quando, nel 1883, la rendita annua raggiunse le 6 mila lire, la Commissione si scosse e... deliberò di offrire tutti i fondi fin lì accumulati alla Provincia: pensasse lei a realizzare il Ricovero di mendicità! La Provincia ne discusse a lungo e infine declinò l’offerta limitandosi a suggerire la fondazione non di un solo Ricovero, ma di parecchi, nei centri più popolosi, a iniziativa di privati o di imprecisati corpi locali.
Nella cascina sopra le “Ripe” - Nel 1886 il colpo d’ala: l’acquisto della cascina Pamparà sopra le Rive, per 21 mila lire, ad un’asta. E anche grazie alla nuova presidenza del pro-sindaco avv. G. A. Comino la pratica si risvegliò. Nell’89 il patrimonio era salito a150 mila lire in titoli, più qualche legato e alcuni stabili, tra cui la cascina da adattare a sede. Con i contributi della Cassa di Risparmio di Mondovì e dei quattro Ospedali a quel tempo aperti in città, il Ricovero, eretto in Ente morale, divenne un traguardo possibile. Nel 1890 ebbe un suo Statuto (il Ricovero poteva accogliere mendicanti, inabili al lavoro, invalidi d’ambo i sessi over 14, nati o residenti da 5 anni nel Circondario e privi di parenti diretti in grado di sostentarli...).
In quello stesso anno, l’ing. Camillo Riggio fornì il progetto e furono affidati i lavori. Intanto all’avv. Comino era subentrato l’avv. G. B. Manessero, un altro cattolico impegnato. Per affrontare le spese fu lanciata una nuova sottoscrizione. L’ex cascina, ristrutturata con criterio, poté così accogliere i primi otto bisognosi. Rivestiti di panno grigio con berretto di foggia militare e marchio RM, essi furono affidati alle buone suore del Cottolengo che si fecero in quattro. Il vitto non era da indigestione: caffelatte mattutino, minestra e pane a volontà per pranzo e cena; il giovedì e la domenica anche carne e un quartino di vino.
L’inaugurazione fu fissata il 6 settembre 1891, presenti il vescovo Pozzi, il sottoprefetto, il neo-sindaco Comino, che si compiacquero per l’esito infine positivo di una iniziativa socialmente importante, e apprezzarono i locali, gli spazi, il porticato, il vasto cortile e il delizioso giardino. Pochi giorni prima era venuto in visita a Mondovì e Vico Umberto I, il re buono, e aveva lasciato pure lui un contributo. Il patrimonio, riferì il presidente Manessero, era così di 150 mila lire, ma era augurabile un sempre maggior apporto di carità e generosità. La cappella della Sacra Famiglia si aggiunse poco più tardi, fra il 1905 e il 1909 “per munificenza dei fratelli Jemina”, su progetto dell’ing. Montezemolo che pensò a un romanico modernizzato semplice e funzionale, con altare dei Manzo, dipinti del Toscano e tribune sulla navata per tener separati i ricoverati dai fedeli esterni, come suggerito anche dal benefattore don Teobaldo Oderda e dal prevosto di Breo don Griseri.
Per i poveri, le suore, i cappellani, i volontari cominciava un’opera di misericordia durata ottant’anni in quella ex cascina o in preghiera in quell’accogliente cappella.
“Certo, non basterà il Ricovero a sanare la piaga della mendicità – scrisse la Gazzetta –, ma intanto i poveri in giro non sono più tanti come prima”. Soprattutto erano accolti con umanità e cristiana sollecitudine. Lo stesso spirito che animò poi i promotori della nuova grande sede di via Ortigara entrata in funzione giusto vent’anni fa.

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