Dummy, 20 anni di trip hop

Capolavoro dei Portishead

Un genere che parrebbe passato un po’ di moda, ma che più di altri ha segnato e innovato questi ultimi 20 anni musicali è stato senza dubbio il trip-hop, capace di affondare le proprie radici da un lato nel rock e nella psichedelia (soprattutto quella dei Primal Scream) e sul versante opposto nel dub, figlio degenere del reggae contaminato dai colonizzatori inglesi, e nell’hip hop. La miscela era appunto un ritmo cadenzato, tendenzialmente lento e su tre tempi, capace di portare l’ascoltatore in un “trip” (viaggio allucinogeno) di suoni, effetti e variazioni sul tema. Pochi generi hanno saputo mettere insieme buona parte dello spettro musicale di una generazione, dal rap al jazz, come in questo caso e poche band sono state in grado di esserne autentici alfieri: i Massive Attack sono i capostipiti del genere insieme ad un altro mostro sacro dell’epoca come Tricky, ma l’album che in assoluto può essere considerato come il più importante è forse Dummy (1994) il primo disco dei Portishead, che insieme agli artisti citati formano una sorta di inossidabile trinità. Ecco che a 20 anni da quella data i Portishead hanno riproposto questo loro capolavoro, rieditandone anche l’Lp, e un appassionato come chi scrive non poteva lasciarsi scappare l’occasione di rivivere l’esperienza di quell’ascolto, come fosse la prima, con la puntina a navigare i solchi del vinile.
Misterons e Sour Times conducono l’ascoltatore in un’atmosfera cupa, cifra dell’intero lavoro, fatta di basi retrò, campionamenti su brani jazz e film d’antan, un universo in cui suono e mondo reale (suoni industriali reinterpretati nelle batterie, vedi Strangers) si sovrappongono e si rincorrono. In questo viaggio allucinato, si staglia la voce di Beth Gibbons (It Could Be Sweet e Wandering Star), spettrale e profonda, piena di sfumature. It’s a Fire è l’unico momento in cui si rifiata, prima di tuffarsi con Numb in atmosfere claustrofobiche. È un lungo viaggio nell’introspezione Dummy, fatto di (molte) ombre e ben poche luci, come racconta Roads, una “pseudo ballata”, climax di un viaggio durato già una buona mezz’ora: non c’è il tempo di sentire la prima nota del piano Rhodes di Solman che il desiderio è quello di alzare il volume per sentire vibrare le emozioni insieme a quel suono così insistito e malinconico; in 50 secondi la storia del brano è delineata, emozionare fino alle lacrime e quando la voce della Gibson attacca la prima strofa diventa davvero difficile trattenere l’emozione. Dopo è difficile rianimarsi, e i Portishead recuperano suggestioni di jazz e cinematografia in cui ci accompagnano (per tre brani in tutto) fino alla conclusiva Glory Box, altro grande momento del disco e degna conclusione di un viaggio epico, tra un giro di basso ed un assolo di chitarra quasi inaspettato, retti da ancora una volta da una voce magica.

NEL CARRELLO:

Primal Scream “Screamadelica” 1991, Creation Records.
Massive Attack “Blue Lines” 1991, Circa/Virgin Records.
Massive Attack “Protection” 1995, Circa/Virgin Records.
Massive Attack “Mezzanine” 1998, Circa/Virgin Records.
Tricky “Maxinquaye” 1995, Island Records.
Portishead “Dummy” 1994, Go! Discs.

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