La Bellezza è di chi la gode

I live di culture club 51

In musica la bellezza la si può trovare ovunque; lo stesso concetto di musica incarna, in sé, uno dei modi con cui essa si manifesta. Appurato che di musica ci si può meravigliare e anche cadere innamorati, l’elemento declinabile sta nelle diverse possibilità con cui l’individuo si emoziona, e che possono dipendere ad esempio da ciò che si ascolta, da come se ne consuma o dalla compagnia con cui ci si trova a vivere questi momenti. Nell’ultima settimana si è avuta la possibilità di assistere a 4 diverse serate, che per una ragione o per l’altra possono essere definite speciali; ogni emozione si declina poi a modo suo.
È innegabile che ascoltare un colpo della chitarra distorta, effettata e carica di delay dei Be Forest (band pesarese che parte dalla tradizione dark wave dei Cure, quella di Disintegration, per ricostruirla sotto la lente del post punk anni ‘90 e che si è esibita sabato 7 febbraio nel basement dell’Astoria di Torino) per chi scrive rappresenta dei tuffi al cuore, fatti di salti indietro nel tempo e di emozioni, di quelle in cui ci si chiede il perché una band così non sia ancora riuscita a trovare spazi maggiori nel panorama musicale italiano sempre così standardizzato nei suoni. Per Tricky (la sera successiva Torino lo ha accolto in un bagno di folla) il punto di vista è più clinico, quello di chi considera il trip-hop genere più importante e fondamentale (insieme al grunge) degli ultimi 20 anni: in un’ipotetica Trinità, se Massive Attack sono il Padre e ai Portishead non può che andare il ruolo dello Spirito, Adrian Thaws non può che immolarsi nella posizione del Figlio; un figlio forse non troppo riconoscente, perché andata persa per strada repentinamente la migliore vena artistica ha vissuto di rendita della propria immagine in un live troppo rock e poco pieno di suoni, ma che richiedeva almeno un ascolto se non per rispetto a quel grande lavoro che è stato Maxinquaye. Quella dei Mashrou’ Leila (giovedì scorso all’Hiroshima Mon Amour) era invece una scommessa, mettersi in ascolto e affidarsi alle parole di chi ti consiglia di non perdere un appuntamento con una band libanese che prende la propria tradizione e la fa dialogare, come un giovane di qualunque altro posto del mondo, con le sonorità del rock. Ascoltare questo live è stata la conferma di uno dei pensieri basilari del linguaggio musicale, che esiste al di là di qualsiasi barriera nazionale, linguistica o di costume, e riesce ad essere trasversale; la musica di questi ragazzi di Beirut potrebbe essere tranquillamente accomunata a tanta musica folk/rock (francese), alle rivisitazioni klezmer dei Gogol Bordello o alla ben più anglofona chitarra dei Radiohead di Pablo Honey. E poi c’è Sanrito, un piccolo esperimento, che nasconde una carica aggregativa di cui si sentiva la mancanza e che meriterebbe spazio e pubblico. A chi ha voluto, creato e contribuito questo Festival il plauso di aver dato sfogo alla propria creatività: Sanrito si è trasformato, come intendeva essere, in un piccolo festival di grandi canzoni, per la cronaca vinto dal rapper Pepe Nocciola con la canzone “Chi Dorme Poco” (dimostrando di guardare molto più di quello nazionale a sonorità nuove) e aver partecipato, anche se solo per una sera (quella di venerdì), a questo evento si è rivelato per chi scrive un momento significativo, un piccolo episodio forse, ma da ricordare, nel vedere in un solo posto tanta gente ardere per il Sacro Fuoco dell’arte, dove solo la bellezza (magari grezza, ma autentica) può vivere.

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