Con ammirazione e una punta d’invidia i fariglianesi li indicavano come “I Ferrero dla cicolata” per distinguerli dagli altri Ferrero della frazione Viaiano, dai Ferrero dei Mangim e da quelli dei Rubinèt. Presto però Giovanni e Pietro Ferrero, quei due fratelli di semplici origini ma di molto “ardimàn”, dalla natìa Farigliano avevano trovato lavoro a Dogliani come apprendisti panettieri. Poi Pietro, il più giovane, impaziente e instancabile, si spostò a Torino dove riuscì ad avviare due pasticcerie. Ma ai tempi dell’Africa Italiana s’imbarcò per l’Asmara dove per due anni sfornò panettoni che, alla sera, andava in giro a vendere ai soldati. Rientrò a Torino all’inizio della guerra, salvo trasferirsi ad Alba per sfuggire alle bombe che cominciavano a piovere dal cielo.
Quel cioccolato senza cacao - Neppure Alba era allora tranquilla; ma... tempo al tempo. Appena tornò la pace e, con essa, una diffusa voglia di qualche dolcezza pur tra le perduranti ristrettezze, i Ferrero ebbero l’idea geniale di un surrogato di cioccolato simile al piemontesissimo Gianduiotto: senza cacao, ancora troppo costoso e raro, ma con zucchero, burro di cocco (esotico ma non introvabile) e soprattutto con nocciole che nei dintorni abbondavano, specie là dove si spiantavano vigne. Ciò aprì una prospettiva molto interessante per la gente di Langa che ancora tribolava su quei bricchi della “Malora”: un’opportunità insperata per la povera economia d’allora, grazie all’intensificato utilizzo dei noccioleti e ai posti di lavoro offerti da un’azienda in rapido sviluppo. Una sessantina erano gli addetti alla “Ferrero” già a fine 1946: tutti impegnati nella produzione insieme a Pietro, mentre Giovanni – da pasticcere che era – si trasformò in piazzista con la sua Millecento, su e giù per la Langa, poi in tutto il Piemonte, la Liguria, la Lombardia, e a più vasto raggio, nel Centro e Sud d’Italia. Piacevano il gusto e l’aspetto e il costo ragionevole di quei pani bicolori non proprio di cioccolato ma non meno gustosi e nutrienti. Al ritorno da scuola i ragazzi ne compravano una fetta per la merenda e la divoravano col pane tornato finalmente bianco seduti sogli scalini mentre la radio trasmetteva l’arrivo del Giro d’Italia, oppure d’estate durante i primi campeggi. Tante dunque le richieste e rapida la crescita dell’azienda, nonostante una prima alluvione che il 10 settembre 1948 invase capannoni e macchinari con l’acqua e il fango del torrente Talloria. Tutti infatti si diedero a spazzare e ripulire, come avvenne di nuovo nel novembre 1994, e la produzione riprese in meno di due settimane.
La fortuna di un marchio e di un territorio - Fu uno dei tanti esempi di stretta e fiduciosa collaborazione fra vertici e maestranze, uno dei segreti di un successo condiviso. Le intuizioni dei promotori, l’attenzione e il rispetto per i dipendenti uniti alla laboriosità di ciascuno divennero un caso da manuale, e determinarono la fortuna non solo di un marchio ma di un intero territorio. Nel 1949 però Pietro fu fermato da un infarto a soli 50 anni, e la direzione passò al fratello Giovanni in stretta intesa con il nipote Michele, che si era diplomato all’Istituto “Baruffi” di Mondovì, e con la cognata, la doglianese Piera Cillario, sorella di quel don Eugenio Cillario che noi monregalesi ricordiamo come economo del Convitto Vescovile e insegnante di religione alla Media di Mondovì. Con innato buon senso la signora Piera sostenne il figlio Michele che aveva allora solo 22 anni, ma si mostrò subito all’altezza, per capacità manageriali e innovative, per sensibilità alle attese del mercato, per infallibile fiuto verso il marketing a cui la tivù e oculate sponsorizzazioni fornivano occasioni nuove di vasta popolarità (memorabili fra tanti il Carosello con Jo Condor; e gli indovinati lanci di Kinder, Duplo, EstaThe, Mon Cheri, Rocher, Pocket Coffee, Brioss, Tic Tac, e il durevole trionfo della Nutella...). A tutto Michele badava con determinazione, guardando in grande senza trascurare i dettagli e la realtà locale di partenza, con semplicità e riservatezza nei rapporti, e con sensibilità sociale e culturale. Nel 1957, anche lo zio Giovanni fu stroncato da un infarto, e le doti di Michele come geniale capitano d’industria rifulsero in pieno, a livello non solo nazionale ma europeo e mondiale: fino al 2011 quando, perso uno dei due figli morto improvvisamente in Sud Africa, cedette il ruolo di amministratore delegato al figlio Giovanni restando però sempre vigile sulle sorti di un’azienda che, senza dimenticare le radici, ha saputo inserirsi nel mercato globale e guardare a sempre nuovi traguardi, tra cui, prossimo, la Cina.
Eccezionali i risultati sotto tutti gli aspetti - 20 stabilimenti nel mondo, 34 mila addetti, 8,4 miliardi di fatturato annuo. E sincera ed eccezionale ora la commozione, l’ammirazione e la gratitudine espressa a tutti i livelli per questo manager mancato a 89 anni, che spiegava il segreto del successo nel “pensare diverso dagli altri e nel non tradire mai il cliente”, ma anche nell’essere una famiglia serena, nel nutrire una fede sincera: “Mi sono sempre messo nelle mani della Madonna, e la devo ringraziare. La prego ogni mattina e questo mi dà una grande forza”, confidò in segreto tempo fa. Sarà forse vero che ora con lui finisce un’epoca; ma è augurabile che anche chi gli succede guardi al suo esempio e alle sue regole, e prosegua nello stretto legame con questa nostra terra.
Partirono da Farigliano e Dogliani i successi dei Ferrero “dla cicolata”
Vasta eco alla scomparsa del capitano d’industria. A Mondovì, lo zio materno, can. Eugenio Cillario