Da quando ho cominciato a curare la rubrica musicale per questa testata non avrei mai immaginato che mi sarei dovuto trovare a scrivere un articolo di questo tipo, a seguito della tragedia che ha coinvolto i componenti della band Tony & I Semitoni nella notte di domenica 6 marzo.
La cronaca racconta di quattro musicisti cuneesi, Antonio “Tony Mac” Levrone, Marco “Mammo” Inaudi, Paolo Papini e Gian Paolo Giacobbe, tragicamente scomparsi a causa di un incidente stradale sulla strada del rientro dalla Val di Sole in Trentino, dove la band aveva tenuto una serie di concerti; quattro musicisti che vivevano e lavoravano sul territorio, molto conosciuti e apprezzati anche all'interno del panorama musicale locale.
Si associa la musica a momenti piacevoli, a eventi magari emozionanti, spesso connotati da un valore positivo. In realtà quest'idea sottende un falso mito: la musica come un qualsiasi altro fenomeno umano della vita non ha un segno più, o un segno meno; parla di quello che siamo, e di come ci esprimiamo. C'è chi lo fa in un modo, e chi lo esprime in un altro; chi, attraverso la parola scritta, e chi, come Mammo, lo faceva pigiando le corde di un basso. Ho conosciuto Marco Inaudi in gioventù quando tra appassionati di musica ci si ritrova spesso e volentieri sotto un palco a sentire i live di questo o quell'artista, si seminavano i primi semi di quella che sarebbe stata l'esperienza degli Abnoba.
Il ricordo che mi rimarrà più impresso nella mente è però senza dubbio quello legato al Concert1no del Primo Maggio, organizzato nel 2014 insieme a Mondovì In Movimento. L'idea era quella di dare spazio alla musica locale tutta, un bel happening su tutto ciò che bolliva in pentola nel territorio, e far chiudere il live alle Officine Le Falci (diventate poi UnOff//) perché più di tutti davano il senso della mescolanza, grazie alla capacità di improvvisazione, le atmosfere, il background e le esperienze diverse. Mammo in quella occasione, arrivato con un po' di anticipo insieme agli altri due componenti della band per godersi l'atmosfera della giornata, mi ringraziò per la manifestazione che eravamo riusciti a creare e per il bisogno che la provincia aveva di giornate di quel genere. La sua riconoscenza era tanta quasi quanto il mio imbarazzo nel vedere un coetaneo, che faceva di questa passione – a differenza mia – una professione, partecipare ad un live a cachet zero, semplicemente per il senso di appartenenza, e la voglia di condividere l'idea che nella musica ci fosse un valore ben più alto anche di quello che la bellezza possa esprimere attraverso il suono.
Fare musica al giorno d'oggi è tutt'altro che facile, specie per chi sta sul palco non come un prima donna, che non vive di milioni di dischi venduti, ma accetta di salirci da comprimario, insegnando nelle scuole di musica, o suonando ovunque, nei centri sociali così come alle sagre di paese, a cadenza regolare con numerosi concerti a cachet contenuti, per portare a casa uno stipendio, come una qualsiasi altra persona che si guadagna il pane.
Marco Inaudi per me ha da sempre rappresentato un po' questo, il prototipo del musicista dei giorni nostri: un ragazzo che mette insieme i pezzi, nella precarietà di non sapere bene cosa attende il futuro, ma con la grandissima qualità umana, oltreché artistica, di affrontare la vita guardandola in faccia sempre con la leggerezza di un sorriso, scorrendo nel flusso, assecondando i mutamenti per incidere sopra il proprio marchio, un po' come su un basso Ashbory, su cui ci si muove sinuosi, attratti dai suoi colori fluo nella notte, pestando le dita, saltellando sulle corde, battendo e accarezzando la nostra creatività.