Siamo riuniti intorno al tavolo per la consueta Cena Polemica, in attesa di approcciare l’analisi del lavoro rap più importante degli ultimi 20 anni: Club Dogo - Mi Fist. Il disco ha una portata enorme per le ricadute sui successivi lavori: illuminante e potente sotto ogni punto di vista; rappresenta il disco d’esordio dei Club Dogo nella formazione odierna (Jake La Furia, Guè Pequeno, Don Joe), dopo la parentesi delle Sacre Scuole (in cui al collettivo aderiva anche Dargen D’Amico). Ciò che per i Pink Floyd fu il periodo con Syd Barrett. Visionario, ispirato, de-strutturato. Mi Fist arriva (2003) quando la scena nazionale sembra morta, o addormentata. Eppure evidentemente qualcosa accadeva. Al primo ascolto Mi Fist (con notevole ritardo rispetto all’uscita), non riuscivamo a credere che tanto talento lirico non riuscisse a emergere; i Dogo erano per lo più sconosciuti, suonavano in centri sociali e oratori dell’hinterland milanese. Veniamo al disco: un giovane Don Joe alle produzioni, di gusto fine anni ‘90, ma oggettivamente bellissime (le migliori le troviamo su “Cronache di Resistenza” e “Hardboiled Sabotatori”); quindi, i testi. Con Mi Fist i Dogo superano l’attitudine anarcoide e sovversiva che li aveva caratterizzati lungo il periodo del progetto Sacre Scuole, per proporsi ora in testi “di cronaca” (termine da loro stessi evocato: come videocamere che riprendono semplicemente la realtà e la riportano) e dalle tematiche di gusto socialista (lotta di classe, potente solidarietà al popolo, odio per il potere, etc., tutti temi che si ritrovano in ogni testo). Col tempo (e in particolare dopo l’album successivo Penna Capitale), avrebbero perso quest’accezione “sociale” e politicizzata.
A nostro avviso l’album va ascoltato tutto, intero, e moltissime volte, per comprenderne in pieno la portata incendiaria. È un lavoro troppo vasto per essere compreso in pochi e superficiali ascolti. Il talento di Guè Peqeuno e Jake la Furia trova qui forse la massima espressione: menti fresche e velocizzate da stili di vita precari e caotici. Per citare solo due versi: su Hardboiled Sabotatori, Guè Pequeno scrive “vento gelido / come lo sguardo del mister col soprabito”, oppure su Qualcosa in mente: “È l’alba e il vento freddo sfregia i nostri volti / ricordi vorrei fermarli giorni troppo corti / se al soffio gli scirocchi contrari qui cambiano i tarocchi / devo tenere aperti sempre tutti e tre i miei occhi / immagine indelebile, faccia spaccata allo specchio / valore inestimabile ogni cosa insegnata dal mio vecchio / per i frammenti ancora vivi e le panchine-letto / stupefacimenti senza fine e rime nel cassetto / scrivo con luce flebile sullo schermo vola un proiettile / pagine per salire su più delle nuvole / amare in modo simile / soffrire l’impossibile / se non lo fai non sai cos’è vivere”.
Capolavoro, aurora nella notte del sonno del rap italiano di quegli anni. Pezzi di punta: Hardboiled Sabotatori (il migliore), Cronache di Resistenza, Qualcosa in Mente, Vida Loca, La Stanza dei Fantasmi, Sangue e Filigrana.
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