«La situazione, che già era grave, sta diventando anche un po' anomala...». È il commento di Gaspare Palermo, sindacalista Filctem CGIL Cuneo che sta seguendo il caso Rebus-Pierrot di Mondovì. Da due settimane il titolare delle aziende ha annunciato la chiusura e ha detto che avrebbe "portato i libri in Tribunale". Aveva detto che lo avrebbe fatto martedì: invece non è accaduto. Che sta succedendo?
Sabato 16 aprile le lavoratrici Rebus-Pierrot hanno portato in piazza la loro rabbia e la loro delusione. Verso l’azienda che le ha lasciate a casa e che oggi non si sa in quale direzione sta navigando: fallimento, concordato o altro?. Le lavoratrici (sono quasi tutte donne) non vedevano stipendio da mesi, niente tredicesima né cassa integrazione. Palermo: «Dietro ognuna di queste lavoratrici c’è una storia: una donna che ha già il marito senza lavoro, una madre con due o tre figli che magari a casa è sola. Chiediamo ai sindaci di aiutarci a contattare realtà produttive interessate a non gettare via questa professionalità».
Le lavoratrici: «La lasciate a casa senza un centesimo»
Pubblichiamo un sunto del volantino diffuso dalle lavoratrici Rebus e Pierrot di Mondovì. «Dopo anni di sacrifici, di lavoro in condizioni difficili, rinunciando in certi periodi anche alla nostra legittima retribuzione, comprendendo i ritardi legati alle difficoltà che viveva l’imprenditore, senza alcun preavviso e senza che nessuno ci avesse mai spiegato come realmente andassero le cose ci siamo trovate a casa senza lavoro e senza reddito. Da più di tre mesi infatti non percepiamo un centesimo e, nonostante tutto, nel mese di marzo abbiamo ancora lavorato, dato che il lavoro non mancava e i clienti pressavano per la consegna. E adesso? Cosa ne sarà dei clienti da noi serviti? Della nostra professionalità acquisita in tanti anni di lavoro? Molte di noi sono in azienda e lavorano nel settore tessile da più di 20 anni: questa nostra esperienza dove andrà a finire? Oggi il mercato del lavoro è basato prevalentemente sul basso costo, e a risentirne sono la qualità del prodotto ed il cosiddetto “Made in Italy”. Come è possibile difendere tutto ciò se non si tiene conto della competenza della manodopera? Dobbiamo proprio rassegnarci o possiamo ancora far valere il nostro vissuto lavorativo? Abbiamo un sogno: vorremmo che il nostro lavoro, la nostra professionalità, la nostra ricchezza fatta di mani e sudore possano continuare a camminare con le “gambe” di un eventuale imprenditore che, mettendo le risorse economiche di cui noi non disponiamo, possa far ripartire l’attività produttiva. Nel frattempo siamo tutte appese ad un filo, molto sottile e che ogni giorno si assottiglia sempre di più... il filo della speranza. Non vogliamo arrenderci... ma la situazione è sempre più complicata per noi e per le nostre famiglie. Bisogna lottare a fianco del nostro sindacato, la CGIL, chiedendo a tutti coloro che hanno un ruolo istituzionale e politico di smetterla con gli annunci propagandistici. Ci hanno spiegato che rinunciando a qualche diritto, essendo più flessibili, andando più tardi in pensione avremmo avuto un futuro: quale futuro, per noi e per i nostri figli?».