STEFANO TAROLLI, consigliere comunale Mondovì
Da appassionato di storia e politica americana ho seguito con estremo interesse questa campagna presidenziale, sia nella fase delle primarie che del voto conclusivo. Non mi aspettavo la vittoria di Trump e continuo a pensare, esattamente come prima del voto, che rappresenti uno dei momenti meno qualificanti della politica statunitense degli ultimi cento anni. Un errore paragonarlo a Reagan, politico già ‘allenato' (fu governatore della California) e mai così offensivo, né in campagna elettorale né come Presidente. Un errore pensare che abbia un’idea solida sugli affari interni e, men che meno, su quelli esteri: i suoi discorsi, da ascoltare in lingua originaria, della campagna elettorale ne sono prova tangibile. Dal mio punto di vista, il successo di Trump testimonia, in particolare, due cose. La prima è che i ‘non-americani’ non possono comprendere appieno quello che è il pensiero, la pulsione, l’anima degli americani stessi: è un sentimento unico, non ripetibile e, men che meno, facilmente intercettabile per chi vive fuori dagli States. La seconda è che molti stati del mondo - specie se di cosiddetta ‘democrazia progredita’ - sembrano esclusivamente pervasi dalla volontà di ‘votare comunque NO’, rispondendo con un populismo dilagante a fallimenti, veri o presunti, di chi sta governando. Potremmo parlare della Brexit, ma anche di esempi più vicini a casa nostra. In ultimo, ritengo, con molto rammarico, che esista ancora nel mondo una ‘questione femminile’, in base alla quale molti elettori, magari non dicendolo, non votano donna, specialmente laddove si tratti della conquista di posizioni apicali. Si tratta di quel ‘muro di cristallo’ che Hillary Clinton - dal mio punto di vista candidata seria e preparata - non è riuscita a rompere del tutto. Ha stravinto Trump… questo è il dato finale. Ma non si parli almeno di un ’nuovo sogno americano’ come ha fatto il neoeletto Presidente nel suo victory speech… mi pare davvero un po’ troppo per la gloriosa storia degli Stati Uniti d’America.
MICHELE PIANETTA, vice presidente Anci Piemonte
Gli stessi commentatori che, nella prima serata di ieri, sottolineavano come la vittoria di Trump rappresentasse una "sciagura", ci consegnano oggi, con il caffè della mattina, una ponderata analisi sulla vittoria del candidato repubblicano, "che alla fine tutelerà il patrimonio liberale dell'America" (dalla maratona elettorale di Mentana, su La7). Al netto di ogni retorica, è chiaro che la sconfitta di Clinton è la débâcle dei Democratici, che si sono affidati alla stessa "ditta Clinton" che balla sul palcoscenico della politica dal 1979: lui, governatore dell'Arkansas sino al 1992, quindi presidente dal 1992 al 2001; lei, al Senato dal 2001 al 2009, poi segretario di Stato nel primo mandato Obama. Insomma, quel vento di cambiamento che, otto anni fa, trascinò Obama alla presidenza, volta ora le spalle ai Dem e li costringe ad una "traversata nel deserto" che ricorda, in maniera evidente, il post-Clinton, all'indomani della risicata vittoria di Bush jr. su Gore. Quanto a Trump, rubricare il suo trionfo come un banale scontro di classe significa non cogliere appieno un segnale: Trump, è vero, ha vinto contro la "gauche caviar" di Manhattan, ma ha anche vinto contro la nomenclatura del suo partito, che lo ha pubblicamente avversato, ed ha raccolto, a sorpresa, il sostegno delle minoranze e dell'elettorato femminile. Intanto, da vincitore, ha già smesso i panni barricaderi della campagna elettorale: "it is time to come together", il suo primo discorso da 45esimo presidente degli States. Ma non era Trump quello politicamente scorretto?