IL REFERENDUM SPIEGATO IN TRE PUNTI

Ecco per cosa si vota e cosa cambia se vince il "sì". I dettagli sul voto. Spiegazioni e info grafiche.

Referendum costituzionale 2016: informazioni generali
Domenica 4 dicembre gli italiani sceglieranno se approvare oppure no la riforma costituzionale Boschi-Renzi. Sarà la maggioranza degli elettori a decidere per le sorti del Parlamento; infatti, se il Sì supererà il 50% dei voti la riforma della Costituzione verrà approvata ufficialmente, in caso contrario tutto resterà come è ora.

Il quesito:
"Approvate il testo della legge costituzionale concernente "disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del Cnel e la revisione del Titolo V della Costituzione", approvato dal Parlamento e pubblicato nella Gazzetta ufficiale n. 88 del 15 aprile 2016?".

I seggi saranno aperti dalle 7 alle 23 di domenica 4 dicembre.

Il referendum non prevede il quorum.

1 - Il superamento del bicameralismo perfetto

Quando si parla di riforma costituzionale, quella su cui come cittadini siamo chiamati a esprimerci nel referendum del prossimo 4 dicembre, ci si riferisce a un testo ben preciso: la legge costituzionale pubblicata sulla Gazzetta ufficiale n. 88 del 15 aprile 2016 e che concerne “Disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del Cnel e la revisione del Titolo V della parte II della Costituzione”. Questa formula, il titolo della legge, comparirà sulla scheda che ci verrà data al seggio elettorale, visto il nulla di fatto, con il ricorso in merito al Tar del Lazio, proprio su questa intitolazione contestata da alcuni del fronte del No, che l’hanno ritenuta più programmatica che tecnica. Ora si tratta di spiegare la sostanza che c’è dietro quelle parole. Lo faremo articolando in tre momenti (tre puntate diverse): bicameralismo; numero dei parlamentari, costi e Cnel; autonomie locali, in particolare le Regioni (titolo V della Carta). Abbiamo anche chiesto ai sostenitori del Sì e a quelli del No (scegliendo tra i diversi comitati i due che hanno raccolto firme per il referendum e che risultano più riconoscibili nel dibattito pubblico) di esprimere direttamente, con le loro parole, sia pure in estrema sintesi, la loro valutazione su ciascuno dei passaggi.
Cominciamo dunque con il “superamento del bicameralismo paritario” che è anche l’aspetto più macroscopico della riforma.
Attualmente Camera e Senato hanno le stesse funzioni; in particolare, entrambe votano la fiducia al Governo e hanno il medesimo ruolo nella formazione delle leggi. La riforma prevede che spetti soltanto alla Camera il voto di fiducia al Governo, così come l’approvazione di gran parte delle leggi. Il Senato (che passa da 315 membri eletti direttamente a 95 rappresentanti di Regioni e Comuni: ma su questo ci soffermeremo quando sarà il turno del secondo punto del quesito) può avanzare proposte di modifica, ma su di esse la Camera si pronuncia in via definitiva. Fanno eccezione una serie di leggi particolari che vengono espressamente indicate e che richiedono la doppia approvazione. I cambiamenti introdotti nel procedimento legislativo prevedono anche il cosiddetto “voto a data certa” per le leggi che il Governo ritiene essenziali per attuare il suo programma e limiti costituzionali per i decreti legge dell’esecutivo. In parte connesse con il nuovo bicameralismo sono le modifiche al quorum per l’elezione del presidente della Repubblica e alle modalità di elezione dei giudici costituzionali di nomina parlamentare, così pure l’introduzione del giudizio preventivo di costituzionalità sulle leggi elettorali da parte della Consulta. Cambiamenti riguardano anche il quorum per i referendum abrogativi e la previsione di referendum propositivi e di indirizzo. Passa da 50mila a 150mila il numero delle firme necessarie per le leggi d’iniziativa popolare a cui i regolamenti parlamentari dovranno garantire l’esame e la deliberazione finale.

Perché SÌ
L’Italia è l’unico Paese dell’Unione europea a mantenere un bicameralismo paritario, cioè una Camera e un Senato con identici poteri, incluso quello di dare o revocare la fiducia al Governo. Questa struttura parlamentare ha effetti negativi sulla stabilità del sistema politico e sull’efficienza dell’iter legislativo. Inoltre, comporta costi aggiuntivi per lo Stato (pari a circa 175 milioni l’anno) che potranno essere risparmiati in caso di vittoria del Sì al referendum. Con la riforma, le funzioni di Camera e Senato saranno finalmente differenziate: la Camera rappresenterà la Nazione e avrà la funzione di approvare la gran parte delle leggi, mentre il Senato rappresenterà le Regioni e i Comuni, con poteri propositivi, di controllo e di garanzia. Con l’istituto delle “leggi a data certa”, il Governo potrà chiedere che la discussione e la votazione di un provvedimento ritenuto prioritario avvengano entro 70 giorni. Così si supererà l’abuso dei decreti-legge, dei maxi-emendamenti e dei voti di fiducia. Il Parlamento si riapproprierà in pieno della sua centralità democratica.

Perché NO
Il superamento del bicameralismo paritario è pubblicità ingannevole. Non esistono i celebrati 500 milioni di risparmi, che per la ragioneria di Stato sono meno di 49 milioni annui. Non si semplifica, perché gli artt. 70 e 72 moltiplicano i modelli di procedimento legislativo, con potenziali ritardi e conflitti nei non pochi casi in cui il Senato mantiene una posizione paritaria. Non si istituisce una Camera delle Regioni come il Bundesrat tedesco, perché entrano nel Senato a mezzo servizio per ogni Regione pochi consiglieri-senatori e un sindaco-senatore, legati al segmento di territorio in cui sono stati eletti, senza mandato, e per di più con il privilegio parlamentare per arresti, perquisizioni, intercettazioni. L’obiettivo vero è indebolire il Parlamento riducendone la capacità rappresentativa e cancellando il diritto degli italiani di votare per i senatori. Questo concorre a concentrare il comando sul governo e il suo capo, al fine di tagliare i diritti e imporre i sacrifici alla parte debole del Paese. Per questo, la riforma piace ai poteri forti dell’economia e della finanza.

2 - Meno parlamentari, costi della politica e Cnel

Dopo il superamento del “bicameralismo paritario”, il nostro approfondimento sui temi del referendum costituzionale prosegue affrontando il secondo, terzo e quarto punto del titolo della legge: “riduzione del numero dei parlamentari”, “contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni”, “soppressione del Cnel”, come da formulazione del quesito referendario, quello che troveremo stampato sulla scheda il 4 dicembre.
Sulla scheda si parla appunto di riduzione del numero dei parlamentari: il riferimento è ovviamente alla composizione del Senato, che nel testo della riforma passa dagli attuali 315 membri (più i senatori a vita) eletti a suffragio universale come rappresentanti della nazione, al pari dei deputati, a 95 rappresentanti delle istituzioni territoriali, tra consiglieri regionali e sindaci (più i senatori di diritto, cioè gli ex presidenti della Repubblica, e cinque di nomina presidenziale in carica per sette anni e non più a vita). I nuovi senatori vengono eletti dai Consigli regionali – i tecnici parlano di elezione indiretta o di secondo grado – “in conformità delle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri in occasione del rinnovo dei medesimi organi”.
In che modo questo avverrà concretamente lo stabilirà la legge elettorale che dovrà essere approvata dalle Camere (in Italia le leggi elettorali non sono leggi costituzionali).
Secondo i criteri stabiliti dalla riforma costituzionale e con l’ancoraggio al dato demografico dei censimenti, tra i 95 senatori elettivi si calcolano nella situazione attuale (censimento del 2011) 74 consiglieri regionali distribuiti secondo la popolazione di ogni Regione e 21 sindaci, uno per Regione più le due Province autonome.
Dunque non avremo più le elezioni per il Senato come le abbiamo conosciute finora, perché questo organismo avrà – per dirla sempre con gli esperti – un “rinnovo parziale continuo”. In altre parole i senatori di ciascuna Regione cambieranno con il rinnovo dei rispettivi Consigli regionali e decadranno quando il loro mandato locale cesserà. Ai senatori non spetterà l’indennità parlamentare in quanto già destinatari degli emolumenti previsti dalla loro carica regionale, che non potrà superare la somma percepita dal sindaco del Comune capoluogo. La riforma prevede inoltre che ai gruppi consiliari delle Regioni non potranno essere erogati “rimborsi o analoghi trasferimenti monetari” a carico della finanza pubblica.
E qui siamo già nel terzo punto, quello del “contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni”. È uno dei terreni più controversi della campagna referendaria. Da un lato ci sono alcuni punti fermi, come quelli che abbiamo elencato, a cui vanno aggiunti la definitiva abolizione delle Province (peraltro già ridotte ai minimi termini con legge ordinaria, ma non del tutto eliminate proprio perché previste nella Costituzione) e la soppressione del Cnel, su cui torneremo più avanti. Dall’altro lato, però, la portata effettiva dei risparmi che si otterrebbero con il complesso della riforma è affidata a delle stime, su cui le valutazioni dei sostenitori del sì e del no divergono drasticamente.
Il quarto punto del titolo della legge è la già citata soppressione del Cnel, il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro. È stato istituito nel 1957 sulla base dell’art. 99 della Costituzione, come “organo di consulenza delle Camere e del Governo”, dotato del potere di “iniziativa legislativa” e composto da “esperti” e “rappresentanti delle categorie produttive”.
Un organismo di compensazione sociale molto importante sulla carta, ma che nonostante la riforma del 1986 in tanti anni non è mai decollato (per colpe proprie e per la sistematica marginalizzazione nella vita politico-istituzionale) e di cui forse molti cittadini non conoscono neanche l’esistenza. È un dato di fatto che si può affermare, almeno questo, senza il timore di passare per partigiani di una tesi o dell’altra.

Perché SÌ
La riforma costituzionale consentirà alle nostre istituzioni di funzionare meglio. Ma, per restituire credibilità alla politica, è necessario anche ridurre le poltrone e i costi connessi a questo funzionamento. Cento senatori (anziché gli attuali 315) saranno sufficienti a rappresentare le istanze di Regioni e Comuni, senza ricevere indennità: per lo Stato il risparmio a regime sarà superiore a 150 milioni. L’abolizione definitiva delle Province dalla Costituzione impedirà che esse possano essere riproposte in futuro. Gli stipendi dei consiglieri regionali oggi appaiono spesso spropositati e ricondurli a quelli dei sindaci dei Comuni capoluogo è una misura di buon senso. Inoltre, le Regioni perderanno alcune competenze che saranno ricondotte allo Stato, evitando contenziosi dispendiosi e la ripetizione di capitoli di spesa. Da tutte queste misure, si potranno ricavare fino a 320 milioni. Infine, il Cnel – costato dalla sua nascita un miliardo di euro – sarà abolito definitivamente: non ha mai prodotto una legge.

Perché NO
Il nuovo Senato porrà diversi problemi. Anzitutto, la riduzione del numero dei senatori comporterà un risparmio che, secondo la Ragioneria generale dello Stato, sarà contenuto: 9 milioni, ai quali si aggiungeranno 40 milioni derivanti dalle indennità, non più corrisposte ai senatori. Un risparmio marginale, su un bilancio del Senato di oltre 500 milioni di euro. In secondo luogo, il contenzioso non si ridurrà: oltre a quello derivante dalla confusione del riparto della competenza legislativa tra Stato e Regioni, si profilerà un conflitto tra le due Camere, determinato da un procedimento legislativo farraginoso e non chiaro circa i poteri del Senato. In caso di mancato accordo tra i presidenti delle Camere sul procedimento da seguire, l’ultima parola spetterà alla Corte costituzionale. In terzo luogo, un Senato così concepito non rappresenterà i territori: non c’è vincolo di mandato ed è quasi certo che si organizzerà in gruppi secondo l’appartenenza partitica dei consiglieri e dei sindaci.

3 - Titolo V: le competenze Stato-Regioni

Dopo il superamento del “bicameralismo paritario” (primo punto della legge), la “riduzione del numero dei parlamentari”, il “contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni” e la “soppressione del Cnel” (secondo, terzo e quarto punto), il nostro approfondimento sui temi del referendum costituzionale prosegue affrontando l’ultima questione del titolo della legge: la “revisione del titolo V della parte II della Costituzione” (ovvero l’ambito delle autonomie locali, in particolare delle Regioni.
Si tratta della parte della Carta che riguarda l’ambito delle autonomie locali, in particolare delle Regioni, e che era già stata modificata quindici anni fa, così che in questo caso il raffronto non è con il testo originario del 1948, ma con quello riformato dalla legge costituzionale n. 3 del 2001. Che sia una materia estremamente complessa e delicata dal punto di vista politico-istituzionale è dimostrato anche dal fatto che le Regioni a statuto ordinario furono istituite soltanto nel 1970, cioè ben ventidue anni dopo l’entrata in vigore della Costituzione.
La novità più evidente della riforma sottoposta a referendum è la modifica del riparto delle competenze tra Stato e Regioni, con l’eliminazione della cosiddetta “legislazione concorrente”.
Insomma, non ci saranno più materie in condominio, ma soltanto materie di competenza statale e materie di competenza regionale. Tra le prime sono aggiunte materie nuove rispetto al testo in vigore.
Rientrano nella competenza esclusiva dello Stato, per esempio, le grandi reti di trasporto e dell’energia e le norme generali in tema di salute e politiche sociali, ma anche la tutela del risparmio e la promozione della concorrenza, la sicurezza sul lavoro e la formazione professionale, così come l’ordinamento delle professioni e la tutela e valorizzazione dei beni culturali e paesaggistici.
L’elenco completo è nell’art. 31 della legge di riforma che modifica l’art. 117 della Costituzione, troppo lungo per essere riportato qui ma che merita di essere letto integralmente per farsi un’idea precisa. Nel medesimo articolo sono indicate anche alcune competenze specifiche delle Regioni, fermo restando il principio che spettano ad esse tutte quelle non espressamente attribuite alla competenza statale.
La riforma introduce inoltre la cosiddetta “clausola di supremazia” che consente alla legge dello Stato, su proposta del Governo, di intervenire in materie non riservate alla competenza esclusiva statale, quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica ovvero la tutela dell’interesse nazionale. Per quanto riguarda l’autonomia finanziaria delle istituzioni locali (Comuni, Città metropolitane e Regioni, essendo prevista l’eliminazione delle Province dal testo costituzionale), la riforma stabilisce che sia esercitata, oltre che in armonia con la Costituzione, anche secondo quanto disposto con legge dello Stato ai fini del coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario.
Una legge statale definirà anche “indicatori di riferimento di costo e di fabbisogno” per le funzioni pubbliche svolte dalle istituzioni locali, con l’obiettivo di promuovere “condizioni di efficienza”.
Un altro capitolo è quello del cosiddetto “regionalismo differenziato”, in pratica la possibilità di attribuire particolari forme di autonomia rafforzata alle Regioni a statuto ordinario, con una legge approvata da entrambe le Camere (quindi anche dal Senato formato dai rappresentanti regionali). Rispetto a quanto già previsto vengono ridefinite e allargate le materie in cui si applica questa norma (anche in conseguenza del più generale ridisegno delle competenze statati e regionali) ed è introdotta una nuova condizione, che cioè la Regione interessata sia in una situazione di “equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio”.
Per quanto riguarda le Regioni a statuto speciale e le Province autonome di Trento e Bolzano, una disposizione transitoria stabilisce che la riforma del titolo V della Costituzione non si applichi ad esse “fino alla revisione dei rispettivi statuti sulla base di intese con le medesime Regioni e Province autonome”.
Revisione che dev’essere fatta a sua volta con legge costituzionale, dato che questo è il rilievo che quegli statuti hanno nel nostro ordinamento.

Perché SÌ
La riforma del Titolo V della seconda parte della Costituzione ha lo scopo di rendere più chiaro il riparto delle competenze tra Stato e Regioni. Si definisce meglio chi fa cosa. Lo Stato avrà le sue competenze legislative esclusive e le Regioni avranno le proprie: saranno eliminate le cosiddette “competenze concorrenti”, che troppo spesso hanno causato conflitti tra i livelli di governo, duplicazioni e inefficienze. Un tema cruciale è la sanità: lo Stato si riappropria del diritto alla salute, lasciando alle Regioni la sola organizzazione sanitaria. Sarà così possibile superare le troppe differenze di servizio sanitario tra le Regioni: non è accettabile che in alcune zone d’Italia i cittadini ricevano prestazioni sanitarie peggiori che in altre regioni, che debbano pagare di più o che siano costretti a spostarsi altrove per le malattie più gravi. La riforma del Titolo V rappresenterà anche una svolta meritocratica: le Regioni virtuose, con conti in ordine, potranno avere maggiore autonomia, in materie come governo del territorio o politiche attive del lavoro.

Perché NO
Con la riforma si cancella la potestà legislativa “concorrente”: lo Stato sarà competente in via esclusiva su molte materie; le Regioni su altre. Si introduce la c.d “clausola di supremazia”: il Governo, se lo richieda l’interesse nazionale o la tutela dell’unità economica o giuridica, potrà chiedere al Parlamento di intervenire con legge nelle materie di competenza regionale. Si pongono diversi problemi. Intanto è fisiologico che l’introduzione di nuove materie trascini con sé l’esigenza di una loro nuova definizione. In secondo luogo, il confine tra ciò che spetti allo Stato e alle Regioni è spesso confuso; si pensi alla tutela della salute: lo Stato sarà competente solo sulle “disposizioni generali e comuni” della materia, mentre sul resto ci penseranno le Regioni. In terzo luogo, le competenze risultano talvolta sovrapposte: ad es. il governo del territorio (di competenza dello Stato) e la pianificazione del territorio regionale (di competenza delle Regioni). In quarto luogo, contro la “clausola di supremazia”, le Regioni non potranno opporre alcunché: le condizioni del ricorso ad essa sono di natura politica e non giuridica e le valuterà discrezionalmente il Governo.

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