Gennaio ’43: nel gelo della Russia, la tragica epopea delle Penne Nere

A 74 anni dalla disperata battaglia di Nowo Postojalowka la Sezione ANA di Mondovì chiama a quattro giorni di ricordo e di riflessione.

A 74 anni dalla disperata battaglia di Nowo Postojalowka con cui gli Alpini della Divisione Cuneense tentarono di aprirsi un varco nell’accerchiamento russo, la Sezione ANA di Mondovì chiama a quattro giorni di ricordo e di riflessione, da giovedì 12 a domenica 15 gennaio. Penne Nere da tutta la provincia, e non solo, si collegheranno idealmente a quella tragica epopea, al sacrificio di migliaia di morti, congelati, prigionieri, all’odissea degli scampati sulla lunga strada del ritorno.

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Dopo l’aggressione alla Francia e la breve guerra sul fronte occidentale che era costata migliaia di assiderati nell’inattesa tormenta del giugno 1940, i nostri Alpini erano stati duramente impegnati nel fango dell’Albania, della Jugoslavia, della Grecia. Poi, estate del ‘42, nella Russia sconfinata in appoggio ai tedeschi e alle Divisioni dello Csir. Per le Armate dei generali Gariboldi e Nasci, in quel luglio preparativi frettolosi, sgomento e lacrime alle partenze, lunghe tradotte attraverso la desolazione di Austria e Polonia. Infine la Russia: un altro mondo. E niente monti del Caucaso, ma marce sfiancanti nella steppa polverosa verso il Don per frenare un’offensiva russa. Attacchi a sorpresa di “partizan” già l’11 agosto che impegnano una batteria del gruppo “Mondovì”.

Ai primi d’ottobre la lotta è anche con la neve, i topi, i pidocchi, la fame. Primi congelamenti e attacchi crescenti ardui da ricacciare coi vecchi fucili ’91. Un fronte di 75 chilometri da presidiare, e tanta nostalgia per la casa lontana. A metà dicembre azioni russe sferrate in profondità causano cedimenti e la necessità di lottare contro l’accerchiamento. Il Battaglione “Pieve” e la batteria “Villanova” sono in prima linea. Nuovi attacchi russi a Natale contro reparti del “Mondovì”, del “Ceva”, del “Saluzzo”, mentre la Divisione tedesca che è con loro deve ripiegare.

Nella morsa del gelo: -35°
Freddo a - 35 gradi all’inizio del ‘43, e nuovi attacchi russi, con offensive contro la “Julia” e i tedeschi; ma il settore della “Cuneense” sembra tenere. Il 15 gennaio carri armati russi puntano su Rossosch, e la sede del comando deve spostarsi a Postojaly per evitare d’essere accerchiata da nord, mentre i carri russi tuonano sui duemila uomini rimasti a Rossosch col gen. Martinat. Lì i “complementi” della Cuneense perdono seicento uomini. Poco o nulla possono moschetti e bombe a mano contro i tank. La “Julia”, provata dalle perdite, riceve l’ordine di ritirarsi verso nord est. Sul fronte del Don, dove i russi intensificano gli assalti, l’ordine di ripiegamento giunge la mattina del 17. L’intero fronte è ormai in rotta sotto l’incalzare di soldati e partigiani russi. Congelamenti, confusione, inciampi d’autocarri a secco di carburante, rifornimenti impossibili, zaini
da abbandonare. La Cuneense, in due colonne, deve raggiungere Popowka nel buio e nel vento gelido, e di lì puntare verso Waluiki, prima che venga sbarrata la strada ad ovest.

Resistenza disperata
A Nowo Postojalowka, lotta disperata - Il 20 gennaio partono cannonate micidiali dal villaggio di Nowo Postojalowka e danno avvio ad una battaglia sanguinosa e disperata. Bocche di cannoni sbucano dalle isbe e decimano vari nostri reparti. Nella notte si tenta un contrattacco del “Ceva” e del “Mondovì”; ma i russi hanno ricevuto rinforzi. Allora si ripiega su un nuovo piano con appoggio d’artiglieria anche se i colpi scarseggiano. Strisciando nella neve gli Alpini avanzano fino ai margini dell’abitato e si lanciano allo scoperto contro i carri. Molti cadono o sono catturati. Il gen. Battisti e poi il gen. Ricagno della Julia si uniscono al col. Manfredi del “Mondovì” e concordano per l’apertura di un varco prima dell’arrivo di nuovi rinforzi russi. Chiedono carri e batterie, ma non ne ottengono. Lanciano comunque un attacco disperato al paese sotto un fuoco intenso. Si lotta tra le case, e tra i caduti c’è il maggiore Trovato del “Mondovì”, subito sostituito dal cap. Ponzinibio.

I carri russi avanzano implacabili, e intorno a loro c’è mischia. Avenanti, che guida i superstiti del “Ceva”, ferito, si lancia contro un carro con pistola e bomba a mano. Le munizioni finiscono; i reparti si disgregano. Battisti ordina a Manfredi di bruciare la bandiera del “Mondovì” perché non cada in mano nemica; poi ancora tutti all’assalto disperatamente, anche all’arma bianca. I russi si asserragliano nel paese, e gli Alpini non passano. Nella neve, morti, feriti, relitti. Le perdite diventano orribili; anche due aerei scendono a mitragliare.
Nella sera tragica la battaglia si spegne per esaurimento. La Cuneense è più che dimezzata e dal Comando riceve l’ordine di “sganciarsi dalla morsa”. Come? Tentando di aggirare nel buio il villaggio a nord, puntando su Postojalij che si spera sia stata intanto liberata dalla “Tridentina”. Ma si devono abbandonare feriti e congelati tra urla, gemiti, invocazioni che feriscono più dei colpi. La marcia riprende in silenzio, con nuove gravi perdite. Dalla morsa si esce, ma non è ancora finita. Prima della resa a Waluiki, il 28 gennaio, altre traversie, altri lutti, anche tra i capi: i monregalesi cap. Mario Battaglia, il cap. Giovanni Costamagna già podestà di Mondovì e presidente del Cai; il col. Manfredi trascinatore fermo e intrepido caduto tra le case di Waluiki; il gen. Martinat…

I numeri pesanti delle vittime
Caduti, dispersi, prigionieri... - 4.548 i caduti e dispersi in Russia del 1° Reggimento Alpini; 13.470 quelli della Cuneense, 2.180 i congelati. E per i sopravvissuti l’insidiosa lunga marcia del “davài”, o la drastica interminabile prigionia nei gulag siberiani. Solo un gruppo sparuto di reduci da quell’inferno bianco riesce a rivedere Mondovì, accolto la domenica 13 giugno del ‘43 alla stazione “da un coro di acclamazioni e un incessante lancio di fiori”, come scrive il foglio fascista “A noi!”. Ma quella retorica non può nascondere l’enormità e l’inutilità della tragedia, la responsabilità del fascismo che l’ha provocata, né distogliere dal pensare alla sorte dei dispersi, al dolore per i molti caduti. Per troppe famiglie, l’angosciosa attesa rimane senza risposta. Per parecchi dei reduci subito un generoso impegno sui monti di casa nella lotta di liberazione dall’occupazione nazifascista avviata nel settembre ‘43.
Dure esperienze, sacrifici da non dimenticare e su cui riflettere, al di là del folclore di una grande Adunata. E l’impegno che, con il ricordo doveroso, possa sbocciare una costruttiva volontà di pace anche per questi nostri giorni inquieti.

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