Muri di cemento e acciaio, ma anche di marchi che infangano

Si stanno scombinando gli equilibri complicati su vari scacchieri mondiali. Ma si sta ricreando un clima di tensione pesante ed irritante

Una mossa dopo l’altra, dentro immagini ormai standard in cui al centro sta la firma di un decreto presidenziale, e così il neo comandante in capo degli USA, lo sconcertante Donald Trump, sta spiazzando un po’ tutti. Sembra che abbia una fretta incredibile di lasciare il segno di una presidenza che – se non si tratta di fuochi artificiali d’inizio mandato – vuole ribaltare le sorti e magari anche le logiche del mondo, piazzando gli USA, da soli, al centro di tutto e di tutti, senza curarsi di chi si lascerà indietro, escluso, per strada, nell’affanno, nella disumanità… riesumando miti improvvidi ed inquietanti. Il concetto di fondo che lo sta guidando, un po’ all’impazzata, è quello che attinge alla sua professione di sempre, quella del costruttore edile, che spesso distrugge ciò che c’era prima per edificare altri “muri” più o meno sensati, anzi spesso decisamente assurdi. Il principio-base è quello che fa leva sul “costruire per sé”, dove “ognuno per sé” è l’imperativo categorico. E gli USA, in questo, dovrebbero farla da padroni, scordandosi persino il loro passato ed il loro presente. Infatti gli States sono una terra popolata, nel tempo, da migranti. Adesso però Trump vuole bloccare una serie di questi flussi storici, chiudendo le porte a chi, genericamente, lo stesso tycoon presidenziale ritiene “pericoloso”, a cominciare da popolazioni di alcuni Paesi islamici (selezionati tra i più martoriati e sconquassati, cioè tra i più poveri; mica si mette contro l’Arabia Saudita o il Qatar… per dire). Di lì non devono arrivare per gli USA – secondo il dettato umorale di Trump – presenze, nemmeno se si tratta di rifugiati, di lavoratori anche qualificati, di turisti… unicamente perché “marchiati” dalla loro provenienza. Insomma colpevolizzati alla rinfusa. Discriminati. Ma ce n’è anche per i latino-americani (cristiano cattolici in larga misura) che vogliono salire dal confine col Messico: qui il muro non è di carta bollata ma di ferro e cemento. Sfacciato poi l’intento di Trump che vorrebbe far pagare lo stesso muro ai messicani, che hanno già, ovviamente, respinto tutto al mittente. Un’arroganza statunitense che sembra non conoscere limiti. Molti stanno ribellandosi in tanti modi. Ma la sfida è partita. E chi l’ha lanciata non è l’ultimo venuto, anzi, purtroppo. Si stanno scombinando gli equilibri complicati su vari scacchieri mondiali. Ma si sta ricreando un clima di tensione pesante ed irritante, di grossolane tensioni, di penose discriminazioni, di insopportabili antagonismi, e persino di riemergenti odi… Non ce n’era davvero bisogno. Con parole forti, domenica il direttore di “Avvenire”, Marco Tarquinio, non si è tirato indietro di fronte ad una amarissima verità: “Il marchio di identificazione e di rifiuto degli ‘islamici’ idealmente impresso per ordine di Trump sul passaporto di una persona in fuga dalla Siria e dall’Iraq o dallo Yemen o dalla Somalia somiglia maledettamente alla ‘n’ araba di ‘nasara’, nazareno, imposta per ordine di al-Baghdadi (il califfo nero di Raqqa) sulle case dei cristiani di Mosul. Somiglia, non è uguale. Perché gli USA, così, rifiutano accoglienza, aiuto, la possibilità di una nuova vita a coloro che sono costretti a lasciare la propria terra e lo fanno in base ad un’appartenenza religiosa di gruppo, non ad una qualche colpa personale. E perché, invece, nel Siraq sotto il califfato islamico per i cristiani ‘marchiati’ non è più consentita la vecchia vita, e le alternative all’esilio sono la conversione, la sottomissione pagante o la morte. Il significato delle due scelte (quella di Trump provvisoria, quella dei jihafisti strutturale) è però ugualmente devastante”. Si è su un terreno minato ove si etichettano dei “marchiati” ed ove si scavalcano i diritti fondamentali della persona. Ed allora è una questione che riguarda tutti, anche se non si è nel mirino diretto di Trump.

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