TRAMA
Sbarcato clandestinamente nel porto di Helsinki il giovane siriano Khaled richiede asilo, la sua domanda viene rigettata e si prepara al rimpatrio; nel frattempo Wikstrom un venditore di cravatte di mezza età decide di lasciare lavoro e moglie, vince una grossa somma al gioco d’azzardo e rileva un ristorante in periferia; i destini dei due uomini si incroceranno quando Khaled fuggirà dal centro d’accoglienza per andare a stabilirsi tra i cassonetti del ristorante di Vikstrom.
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La filmografia del cineasta finnico è dedicata quasi interamente agli ultimi: emarginati, personaggi dimessi, schiavi moderni di faticosi lavori in una monotona routine (La fiammiferaia, 1990), sottomessi alla loro condizione, rassegnati a relazioni tribolate, abbandonati al proprio destino in un iperbole che li porta addirittura a non avere una memoria di se (L’uomo senza passato, 2002); vite di sognatori illusi che si scontrano inevitabilmente con la realtà che non li comprende, che li umilia e li spinge alla fuga, unica chimera di felicità, unica speranza di svolta in un esistenza marchiata e incompresa (Ariel, 1988) e (Vita da Boheme, 1992). Kaurismaki si fa carico di loro, senza giudicare, donando una voce ai loro lunghi silenzi, evitando facili autocommiserazioni e slanci di rabbia, lasciando il tempo allo spettatore per ragionare, per entrare nella giusta lunghezza d’onda muovendosi insieme ai personaggi. Individui senza un preciso posto nel mondo, disposti a vagare per la città al limite del nomadismo, in squallidi locali fuori moda, solitari o aggregati gruppi di artisti che vivono alla giornata, a volte senza una fissa dimora, calamitati verso i porti, luoghi di partenza per eccellenza ma anche rifugio per disagiati. Quei porti nordeuropei divenuti approdi da dove riemergono immigrati, rifugiati e clandestini, gli ultimi di oggi, che incrociano quelli ieri in un virtuale passaggio di consegne.
Eppure i personaggi di Kaurismaki lottano, alzano la testa, sono ambiziosi come Vikstrom che si rimette in gioco in età avanzata, cambiando vita con la stessa decisione con cui cambia stile e nome del suo locale, oppure come Khaled emerso dal carbone alla ricerca di una sua posizione nel mondo, e di una sua identità anche se finta che gli permetta di essere libero. Qualcosa però è cambiato nel mondo di Kaurismaki, dai tempi di Miracolo a Le Havre (2011), premiato con la Palma d’oro a Cannes, il regista entra in una dimensione più positiva, i personaggi soffrono, restano in sospeso ma alla fine cominciano a risalire la china, i loro cambiamenti finalmente portano a dei risultati a delle piccole vittorie, le persone che sono attorno divengo solidali, caritatevoli e protettive. Lo scenario torna ad essere Helsinki ma la linea seguita è la medesima, i protagonisti hanno degli obbiettivi, dei legami da riallacciare e ritrovare, si aiutano a costo di diversi sacrifici, gli ostacoli vengono aggirati, gli imprevisti non sono determinanti e la stessa Finlandia, spesso criticata nei lavori del regista diventa un posto accogliente in cui integrarsi, dove potersi ricostruire una vita e riabbracciare gli affetti.
Aleggia sempre un’atmosfera surreale, percepibile nei personaggi stravaganti, e nei dialoghi laconici in situazioni estemporanee, offrendo spunti per una forma di ironia sempre presente malgrado le situazioni, con note amare a volte ma che giocano spesso col paradosso creando momenti di notevole umorismo, usato sapientemente dal regista, come anche la musica importante per i suoi lavori: molti dei suoi personaggi sono musicisti o ascoltano spesso la musica con vecchie radio o nei concerti in locali dimenticati delle città, e vengono seguiti per intere tournee (Leningrad cowboys go America ,1989). Anche in questo film la musica ha una parte significativa , Khaled nel momento di massimo sconforto chiede di poter suonare uno strumento e gli intermezzi concertistici segnano ideologicamente il passaggio tra i capitoli; molta attenzione anche alle location, sempre fedeli ai lavori precedenti: ambienti essenziali, demodè o spogli di ogni suppellettile, dove le figure vengono colpite da raggi di illuminazione trasversale, come se la solitudine dei quadri di Hopper incontrasse la luce di Caravaggio... in un ristorante della periferia Helsinki.