Jacopo Ramonda, classe 1983, è uno dei nuovi poeti delle nostre zone. Nato a Genola, cresciuto a Carrù, vive attualmente a Vicoforte; ed è stato selezionato di recente per il XIII Quaderno italiano di poesia contemporanea di Marcos y Marcos, una tradizione che ha ormai ventisei anni e che costituisce uno dei più interessanti ed autorevoli sguardi sulla poesia italiana contemporanea. Sette libri di sette giovani poeti, tutti generazionalmente dal 1980 in giù come anno di nascita. Il criterio è anche in parte geografico, e Ramonda diviene così il rappresentante di un “remoto angolo di Piemonte non lontano dal confine francese”, una “poesia di confine”, come chiarisce Franco Buffoni nell’acuta prefazione alle sue opere, anche se un confine con una “terra incognita” sotto il profilo generazionale e storico, più che sotto quello geografico.
Ramonda ha già alle spalle un curriculum letterario di tutto rispetto, a partire da “Una lunghissima rincorsa. Prose brevi” (Bel-Ami Edizioni, 2014), e numerosissime altre presenze e collaborazioni. La cosa più interessante è sicuramente la scelta di una forma poetica avvicinabile alla rara tradizione della “prosa d’arte”, solitamente difficilmente percepita nella sua stessa esistenza da un largo pubblico, per la sua liminalità tra prosa e poesia. Le prose d’arte di Ramonda, poi, sono apparentemente non prive di elementi narrativi. Umberto Fiori le vede come il procedimento ad asciugare “dove Fabio Volo ricamerebbe interi romanzi”; a me viene in mente Borges e le sue Finzioni, dove la acutissima pigrizia di non voler scrivere un romanzo lo portò a recensirne molteplici, immaginari. A un primo impatto l’opera di Ramonda sembra davvero restituirci dei mini-racconti essenziali, scavi di psicologie leggeri e minuziosi, accorti: siamo giustamente agli antipodi della prosa d’arte primonovecentesca, in vari modi ricca, spesso dannunziana, ostentatamente comunque anti-narrativa.
Vengono in mente certi testi, ugualmente brevi ma all’opposto fortemente narratologici, di un Buzzati, di un Giulio Mozzi. Quest’ultimo spesso consigliava tali condensazioni come esercizio nel suo ricettario di scrittura creativa (in Ramonda siamo, ovviamente, non all’esercizio ma alla tecnica sopraffina). Verrebbe voglia di un confronto che potrebbe risultare illuminante sulla differenza tra racconto e prosa d’arte oggi, ma la soluzione forse ci viene già dal rifiuto di Mozzi del concetto di “personaggio” come fil rouge (a favore invece della Narrazione), mentre qui in Ramonda abbiamo un possibile “io prosastico” (nelle due possibili accezioni del termine: la forma della scrittura e la quotidianità antipoetica in cui esiste, ad esempio, la dermatologia) indagato a distanza, in una sezione anche tramite la terza persona, dall’autore. Il personaggio è comunque indagato, nella sua duplice veste di personaggio/comparsa; e questo offre un’altra possibile, intrigante riflessione su questa dicotomia fragilissima, griglia d’analisi escheriana di un testo narrativo: dove il personaggio si sfuma in comparsa, e viceversa?
Uno studio che diviene interessante filosofia sul testo per chiunque provi ad assegnare una analisi testuale standard a una classe del biennio delle superiori, e che sa come eccessi di zelo facciano assurgere folle di camerieri, passanti, autisti anche invisibili al testo al ruolo di comparse, o come - in allievi più sciatti - personaggi all’apparenza irrinunciabile vengano degradati ignominiosamente al rango inferiore (anche al fine, pensa il docente malevolo, di evitare la descrizione dettagliata: “Don Abbondio: comparsa”). Ecco, forse queste “prose d’arte” sarebbero perfette per il lavoro didattico in classe, per la loro natura di meccanismo letterario breve e però complesso, un primo approccio – tra i molti possibili - alla ineffabile molteplicità dei testi.