Risonanze poetiche: La partitura a più voci di Valentino Fossati

Sulla scia di Ungaretti e Apollinaire, Valentino Fossati utilizza in modo espressivo anche l'aspetto grafico dei suoi componimenti, caratterizzati da uno stillicidio esasperato di parole solitarie nella vastità della pagina bianca. Autore teatrale, scrittore e critico letterario, nel 2016 ha pubblicato "Inverno" di cui proponiamo l'incipit.

di VALENTINA COLONNA

Valentino Fossati , nato a Genova nel 1974, vive a Chieri (Torino). Poeta, critico letterario, autore teatrale e dedito anche alla prosa, si è laureato con una tesi sulle antologie di poesia italiana del secondo Novecento a Bologna, dove ha collaborato col Centro di poesia contemporanea dell’Università di Bologna . Ha esordito in poesia con Gli allarmi delle stelle (Marietti, 2007), ha pubblicato nel 2014 La gioia (Ladolfi, 2014) e Inverno (Carta canta, 2016); suoi testi poetici, critici e saggi sono apparsi su riviste specializzate e giornali come ClanDestino, Tratti, Frontiera,
Nuovi Argomenti, Graphie, Il Baretti universitario, Atelier, La Stampa, Il domenicale. Ha curato per Garzanti con Davide Rondoni il volume Leopardi. L’amore nelle prose e nei versi e per Laterza il volume scolastico Pasolini e la letteratura dell’impegno. Brevi sillogi poetiche sono apparse nelle antologie I cercatori d’oro a cura di Davide Rondoni, I poeti di vent’anni a cura di Mario Santagostini e sull’antologia on-line Lavori di scavo curata da Giuliano Ladolfi. Ha pubblicato inoltre per Marietti nel 2010 Accademico di nessuna accademia. Conversazioni con Gianni Scalia (con Guido Monti). Ha scritto inoltre per il teatro Quel grido dell’altra notte e Alba infinita, rappresentati nel 2005 e 2008. La sua scrittura, unicum nel panorama contemporaneo, tocca la sperimentazione della pagina come tela pittorica bianca, da cui emergono i tratti sonori, con un’efficacia e una tensione sempre “assolute”.
 INVERNO (inizio)

Inverno,

in quel tempo dei  bambini

nascosti,

come palloni sui terrazzi

le ronde

(periferia – nord)

le ronde dei padri –

tempo dello scoppio

seminati

i bambini sul selciato

in quel tempo …

Poi,

silenzio di tutto

silenzio

di noi

necessario il buio,

necessità di noi …

Riprenderanno a parlare dietro i balconi

riprenderanno

a ricordare

(di noi)

le luci sui piatti,

bagliori sui corridoi

inabitati …

Nessuno provò tanta gioia

(nessuno)

il bimbo nella cucina

dopo la scuola,

solo,

(silenzio

compatto)  –

nessuno.

Oscurità dello sguardo,

oscurità

di noi

bianco di noi

o

nessuno.

Darei la vita

io

(darei

la vita)

per la vita del bimbo?

Anche l’inverno

come la notte

si raccoglieva nel mare,

sul campo secco

nell’ospedale

(darei la vita?) …

… Per trovarlo dietro i vetri

sporchi

per vederlo ancora

dietro –

i vetri

della scuola vicino al campo

ai treni

(gli uomini alti, in piedi)

come nei giorni

prossimi

all’entrare nel buio

(i giorni – i giorni …)

Finito come un sorcio

(cavia)

sotto i ferri

darei –

la vita?

Hai mai pensato al campo

hai mai pensato

alla vita?

Da Corso Unione

l’ospedale

è lì

(è lì)

il suo grido al buio

la sua fame

nel

buio

la sua sete

(nel buio)

lì gli aguzzini – lì gli assassini

a portare morfina

come zucchero

liquido

e solo ombre

(sogni d’ombra)

per il bimbo

solo luce a gennaio

le ombre

dei camici,

ombre sulle mani.

Avrei potuto essere

padre

avrei potuto

esserti

dio

quando la scuola chiudeva e aspettavi

qualcuno

(un’ombra)

(avrei          

                                                                potuto …)

                                  

                                              

Nel bar più vicino aspettavo la notte

nel bar

ho aspettato

il mattino

pieno

d’amore

ho aspettato

(la voce di un dio)

il respiro –

l’ombra

tra le case del dopoguerra

(darei la vita?)

Per te s’avverassero

l’ombra,

il silenzio

ci fosse

una luce

sulla strada

in fondo al campo

(come

dal mare)

altissima.

Cos’è per te la musica della poesia?

 

La musica è il sangue della poesia, il battito della visione dove ‘visione’ è ciò che dal più intimo di noi stessi risale verso le forme del mondo, volendo molto più in là.

 

La lettura (ad alta voce) del testo poetico: qual è secondo te il rapporto della voce col testo e come consideri il tuo “modo” di leggere?

 

Della lettura ad alta voce, con la mia voce, non posso fare a meno. Anche da solo.  Perché ogni poesia, anche la più ‘cosmica’ o la più ‘civile’, per semplificare ovviamente, nasce da una nudità, da una terribile intimità. Nella voce ci sono le tracce di questa intimità. Inevitabilmente.

 

Come definiresti o descriveresti la poesia e il suo rapporto con le altre arti?

 

A me piace definirla come la quintessenza di tutte le arti.

 

 “Inverno” , il tuo ultimo libro edito per CartaCanta, ha la disposizione delle parole ampia, dilatata, piena di silenzio e riverbero che le collega. Questo silenzio vasto procura nel lettore una suspence, un’attesa continua, che lo spinge a voler proseguire, quasi accelerare la lettura, come in un racconto, dove però le parole galleggiano nella pagina, nell’aria. Echeggiano. Quanto per te il silenzio è importante e percepibile nella pagina? Quanto è “visibile”, oltre che udibile? E quale intento vi è dietro un’uso del foglio così particolare, “pittorico”?

 

  Il silenzio. I silenzi. Ci lavoro sempre di più e a volte, confesso, facendo qualche passo indietro come per paura. Il silenzio: ciò di quanto è più vicino alla conoscenza intima di noi (quella terribile, rilkiana, non facilmente ‘intimistica’) e di conseguenza del mondo, e molto più in là. Il “silenzio frontale” di De Angelis. In questo senso il silenzio è poesia, così come è visibile e udibile nel suo rendersi manifesto coinvolgendo più sfere. Il silenzio poi è pienezza, compimento, ma anche travaglio e attesa, una profondità da cui tutto pare staccarsi. E quando a staccarsi dal silenzio è una voce inattesa, talvolta definitiva, che sorge e subito si nasconde, a me piace inseguirla questa voce, registrarla, vederla.

In una poesia dove l’inverno si presenta con il gelo, la neve, la notte e la nebbia, riescono a intravedersi spiragli di luce, che appaiono dalla malattia, dalla morte, dal gelo. E cosìsi mischiano le figure di bimbi, ragazze dolcissime e caramelle, della madre, insieme a quelle di rapitori, poliziotti, boss. A caratterizzare questa poesia è un uso della parola e della punteggiatura curatissimo, che suona anche come un brano minimalista e ricorda la serialità nella ripetizione, ossessiva, a tono normale e poi sotto voce. Per farlo usi parentesi, corsivi, introduci addirittura la doppia lineetta (forse a creare un ulteriore “sottovoce”?), facendo della tua scrittura una “sperimentazione” di tutte le dinamiche di uno spartito, incrementando i pianissimo. Quanto la punteggiatura è determinante per le tue immagini e che lavoro compi sui tuoi testi nella composizione e “lavorazione” poetica?

 

Verissimo quello che hai detto all’inizio rispetto ad alcuni temi e alla musica, non aggiungo altro. Ma anche quello che hai detto alla fine. Di più ancora. La poesia non è fatta tanto, o solo, di grandi idee o di chissà che altro quanto di parole. I mattoni, le fondamenta. E insieme alle parole, o ancora prima, di quegli impareggiabili conduttori di vuoto e silenzio che sono i segni di punteggiatura, oltre al grande bianco della pagina. Atomi. Lavoro fino allo sfinimento su questi, tentando come posso di accenderli, cercando di far reagire con essi chiarori e luci, revisionandoli spesso decine di volte, sistemandoli come su una partitura a più voci … Perché in fondo quel vuoto e quel silenzio sono come il grembo stesso della poesia, molto più concretamente di quanto si possa pensare.

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