di VALENTINA COLONNA
Rudy Toffanetti, nato a Milano nel 1994, vive a Lacchiarella (Milano). Conseguita la maturità classica presso il Liceo Berchet a Milano e laureatosi in Lettere antiche all’Università di Pavia, sta continuando i stuoi studi magistrali in Filologia, Letterature e Storia dell’antichità a Milano. Al liceo ha vinto, tra gli altri, il premio nazionale di poesia “G. Marconi”. È autore di testi teatrali e ha conseguito il diploma d’attore presso la scuola di teatro di Studionovecento. Dal 2015 è volontario attivo presso la Croce Rossa Italiana. Sul confine (Aragno, 2016) è la sua opera prima e segna l’esordio di un autore già maturo, che ha radici profonde, antiche, e spicca il suo primo volo in modo brillante, oltre ogni tempo ed età.
[Tra uno stormo di piccioni]
Tra uno stormo di piccioni
hanno aperto i caffè nelle piazze,
mentre la corriera sfuma nei viottoli.
Un fisarmonicista impasta
il suo strumento come miele
e una musica celeste
languisce per le strade.
Lumi
I rumori di un cantiere, il crepitare
dei cestini e il cigolio
d’una bici immersi nel canto
degli uccelli e nel fragore di un treno
compongono il metafisico sospiro
che si libra sul cosmo.
Diffuso è nell’aria il gracchiare
come di cornacchia di una radio dimessa
che ti avvinghia le scarpe
assieme agli starnuti distanti
dei manovali.
Si compone nel brulicare della terra
questa vita così colma di fango
modellata sui marciapiedi
ai limiti del campo - soffia il vento e
resta immobile ogni stelo
umano e resta sospeso
il gelo sugli arbusti.
Congela, nel bianco lumeggiare del giorno,
la dirotta varietà del reale.
Siamo fatti per guardarci e mai toccarci
ti studio e ti fisso lontana disfarti
Cara realtà tu mi salvi e io
non so prenderti e tu
non sai darti.
La pioggia.
È una lunga giornata di poesia
che la pioggia si mormora sul tetto
e gli ulivi si bevono agitati
dal cupo temporale luminoso.
È una lunga giornata di poesia
sull'asfalto slavato che accarezza
le ombre di una notte che non viene
e la grondaia goccia nel tombino.
È proprio in questi giorni che gli amanti
si amano piangendosi più addosso,
mentre la pioggia sussurra sul vetro
e il mondo declina verso la valle.
L’autostrada
Non devi, non devi
cedere al groviglio degli autotreni
intoppato sull’autostrada grigia,
al viluppo di lamiere che costringe.
Non indugiare sull’acceleratore,
prima che ti stritoli (attento
non dico uccida) l’aria che respiri.
Hanno già dissotterrato i morti e
ecco, appena sulla destra
– eccone uno.
Il bordo dei campi
Perché sbandi
così facilmente verso la morte
abbracciando gli alberi ischeletriti
al bordo dei fossi smangiati?
Una volta mi hai detto
perché ne sei attratta, sì ne sono attratta
come i gatti i fanali delle auto la notte.
Insegui dimagrendo allora la tua
felicità segreta?
mangiando erba salata lungo il cammino,
forse perché hai capito
che la morte è l'unica uscita
dal sepolcro della vita,
e il destino farà tornare primavera.
Lacustre
Lago-non luogo, ma santo confine,
recinto di Cristo, pastore di pesci –
abissi gelati di ghiaccio profondo
e freddo che viene dal sacro terreno.
Lei, con il gusto del rischio dei bimbi,
fece naufragio negli occhi di un dio,
la tomba di vetro di tutto l'amore
che il mondo rassegna alle cose.
Il pianto di lei sussurra nei pesci,
dona la vita alle madri nei grembi
e gela le guance ai bimbi del lago –
il nostro ricordo confine del sacro.
(Tratte da Sul confine – Aragno, 2016)
Cos’è per te la musica della poesia?
Credo che, per me e in genere, la musica sia qualcosa di fondamentale e molto complesso, che non si limita all’evento fonico. La prima poesia che ho scritto, Sirtaki, l’avevo scritta come testo di una canzone. Quando mi sono accorto che non sapevo come accompagnarla con la chitarra ho provato a rompere il verso dove mi sembrava fosse più suggestivo. Allora non lo sapevo, ma ero attento al ritmo, non solo nel senso della successione di accenti ritmici o di allitterazioni, ma molto più in generale alla dimensione del tempo in cui avveniva la poesia. La musica all’interno della poesia è ciò che ne regola l’accadere, un sistema di ritorni, di picchi e di distensioni e di attese soddisfatte o tradite in cui i vari strumenti retorici dialogano tra di loro. Quello che ne emerge è un vero e proprio ritmo, in cui il brano si sveglia, si sviluppa, dialoga e si assopisce. In questo senso credo che qualunque cosa, dalla scrittura al pensiero più strettamente logico, abbiano al loro interno una suggestione affascinante fondamentale, che è una suggestione musicale.
La lettura (ad alta voce) del testo poetico: qual è secondo te il rapporto della voce col testo e come consideri il tuo “modo” di leggere?
La lettura ad alta voce di un testo è ciò che fa vivere il testo, senza è un insieme di parole soltanto. Spesso di qualcuno si dice “come legge bene”, o si va alle letture di poesie per poterle assaporare. Il punto è porsi in maniera critica nei confronti del testo. Leggere ad alta voce vuol dire lasciarsi impressionare dalle virgole, dai versi e dalle strofe, non solo come pause del discorso ma come attimi di sedimentazione, contrappunti a quanto si elabora con l’immaginazione. Che sia anche solo mormorare fra sé e sé è importante impastare nella bocca le parole, per sentirle sillaba per sillaba.
Personalmente credo di avere un modo di leggere abbastanza affrettato, molto concitato, a volte confuso anche. Magari col tempo mi passerà...
Come definiresti o descriveresti la poesia e il suo rapporto con le altre arti?
Io credo che le poesie, come ogni altra arte e forse come qualunque azione, nascano da un bisogno che fa in modo tu non possa fare a meno di scriverle. In cosa consista questo bisogno è difficile dirlo. È un istinto alla conoscenza, alla comprensione, di cui per me fa parte anche l’espressione. Il rapporto che intercorre fra le varie arti credo sia esattamente come quello che c’è tra le varie persone. Si mescolano, si stimolano, si confrontano e lavorano insieme. Io amo molto parlare con chi ha una sensibilità artistica ma non è uno specialista del mondo delle lettere: si mettono da parte le riflessioni più polverose e si guarda al sugo della propria opera.
“Sul confine”, il tuo libro d’esordio edito da Aragno, è un lavoro di mille vite che si alternano e sovrappongono, con le visioni di un uomo di venti e mille anni. Il tempo è come si sospendesse su un continuo limite tra prima e dopo, vita e morte, natura e asfalto duro delle strade. Dalla primavera, che ha il “rumore dei boccioli”, si è condotti alla stagione di un “lago ghiacciato, santo confine”. Cos’è per te il “confine”, che dà anche il titolo al libro, e in che forme esso si declina?
Così mi fai arrossire però. Quando ho pensato il titolo per la raccolta poetica avevo solo qualche vaga impressione e non immaginavo che col tempo sarebbe diventato così attuale. Mi era venuto in mente perché è un libro dove il rapporto fra centro e liminalità è molto importante. In primo luogo per il fatto che è ambientato nel paesaggio dove sono cresciuto, ai bordi della provincia milanese, dove si è circondati dai campi ma la città fa sentire la sua presenza come un lucido cielo arancione che di notte ricopre tutta una parte dell’orizzonte, e si è veramente a metà fra due mondi. Inoltre perché mi sembra che in questo particolare momento storico – o forse sarà che ho vent’anni – ci troviamo come sul confine della storia: da una parte è tramontato quasi definitivamente il mondo popolare, le ideologie del novecento e i vari miti che ne facevano parte, e dall’altro si è imposto ormai del tutto quello moderno. Questo con tutti gli stravolgimenti culturali che comporta. Siamo appena entrati in una nuova regione, abbiamo pochi ricordi, appena dei reperti, del mondo da cui venivamo e dobbiamo andare avanti in uno sconosciuto.
Nel libro infine c’è una terza accezione di confine, oltre a quella geografica e storica. E direi che è di carattere esistenziale. Si riferisce all’impressione che molto spesso, forse proprio per ragioni culturali e storiche ma è probabile che sia un fatto più universale, si viva in superficie e mai alla profondità della coscienza e del sentire. In questo senso il libro è un invito, dall’esordio fino alla lettera di commiato finale, a varcare questo confine, a scendere in profondità.
Sei anche classicista, attore e volontario della Croce Rossa. La tua poesia è piena di visioni, della realtà, che “non sa darsi”, eppure anima i tuoi testi nella sua massima forza e nella sua sconfitta, altalenandosi tra la “sapienza di vita” e la “sapienza di morte”, che finiscono per coincidere (e forse convivere?). I paesaggi, veri protagonisti del viaggio, scorrono dalla natura lombarda e giungono sino al mare, in uno scorrere delle stagioni pieno di brio e inquietudine, che ha il sapore di antico, sino ad arrivare a un tempo delle origini, classico, che si annuncia dalla citazione di Adriano iniziale e vola nella vena “gnomica”, straordinaria tra gli spazi di silenzio delle strofe. Quanto la tua formazione e la tua attività infuiscono nella tua composizione poetica, che ha un timbro unico e ben distinguibile nel panorama contemporaneo?
Per me la realtà, l’esistenza che c’è fuori di me, ha sempre avuto un valore fondamentale. Non so se questo dipenda da una mia forma di insicurezza o altro. Non è un libro di impianto sociale questo è vero, però credo che le persone, gli animali, gli oggetti, la cultura e gli atti con cui tutto si manifesta siano al centro del discorso – si tratti di viottole, orti vecchi, aperitivi, campanili o altro. Questo credo dipenda dal fatto che io concepisco la creazione artistica inevitabilmente come una forma di comunicazione. Più complessa e profonda magari, ma che sempre serve a parlare con qualcuno. I volti che incontro quindi, le cose che faccio e soprattutto le emozioni e le riflessioni con cui mi lego a loro, sono il nucleo fondamentale di ciò che scrivo. Non diventa una letteratura di reportage o di testimonianza in quanto gli oggetti vengono sempre trasfigurati, però credo che alla base ci sia questo richiamo all’incontro, a vincere in qualche modo la superficialità e ostinatamente a vivere a pieno la realtà, per quanto sia difficile o impossibile.