Risonanze poetiche: La penna di Stefano Bortolussi, tra l’Europa e l’America

Stefano Bortolussi è un poeta, romanziere e traduttore: la sua poesia è in bilico tra la tradizione del vecchio mondo e i suoni della California e il suo verso vive dello scambio tra le lingue, su cui si impernia anche la sua ricerca sul suono e sulla musicalità del componimento.

di VALENTINA COLONNA

Stefano Bortolussi, poeta, romanziere e traduttore, è nato a Milano. Tre le sue principali raccolte di poesia: Ipotesi di caldo (Book Editore, 2001), Califia (Jaca Book, 2014) e I labili confini (Interno Poesia, 2016). Ha pubblicato i romanzi Fuor d’acqua, (peQuod, 2004), Fuoritempo (peQuod, 2007) e Verso dove si va per questa strada (Fanucci, 2013). Il suo primo romanzo è uscito negli Stati Uniti prima ancora che in Italia (Head Above Water, City Lights 2003, trad. di Anne Milano Appel). Alcune sue poesie sono comparse nell’antologia Bona Vox, curata da Roberto Mussapi (Jaca Book, 2010), nel terzo Almanacco dei poeti e della poesia contemporanea, a cura di Gianfranco Lauretano, Francesco Napoli e Walter Raffaelli (Raffaelli, 2015) e online sui siti Interno Poesia, Atelier, Poesia (di Luigia Sorrentino), Pioggia Obliqua, Nuove Finzioni. L’autore a pezzi (autoreapezzi.wordpress.com) è il suo blog letterario. La sua ultima raccolta, edita da Interno Poesia, si divide in due sezioni che, come Roberto Mussapi spiega nella prefazione che firma,  sono «due libri perfettamente accostabili e facenti parti di un felice unicum», divisi tra un poema e un «canzoniere metamorfico». Per chi conosce la poesia di Bortolussi, la distingue il suono riconoscibile della California, terra cantata (materna) con tutta la sua essenza e alla ricerca di una sua forza primordiale cui tornare, come fondamento, come essenziale.

Calypte anna

Quanto spesso batte le ali il portento

di natura calando ogni mattina alla fontana

di pietre riprodotte e carezzate di muschio

e ignaro prendendole per vere

nell’ombra indecisa della pergola:

solo i pensieri più guizzanti e selettivi

frullano piumati davanti al raggio vago

dello sguardo diretto, per cambiare, verso l’altro.

È il dono, tra i molti, del mattino

sul lembo occidentale del tragitto,

la sorpresa sperata che si fa realtà

quando i passi indecisi si fermano,

per forza calma ma decisa di marea,

alla vista della schiuma.

Velella velella

Migliaia di vele trasparenti sono sparse

sulla sabbia lappata dall’oceano

o disposte in file ordinate come dalla mano

di bambino divino e sfuggente, troppo piccolo

o forse gigantesco al punto da negare la visione

completa e razionale, l’osservazione in sé conclusa

di chi senza sapere assiste.

Nelle pareti della mareggiata che le ha consegnate

alle nostre attenzioni impreparate

come immensa flotta di navigatori di acque più calde,

discendenti innocui di eleganti e letali caravelle,

appaiono come occhi oblunghi e spalancati su di noi,

forse a ricambiare la sorpresa ammutolita

di una specie all’incontro con un’altra, sconosciuta:

perché una distesa tanto capricciosa di corpi

non sempre irreprensibili per dimensioni, curve,

proporzioni? perché la diversità delle posture,

la varietà dei moti e delle pause, il disordine

di un’assenza apparente di scopo e missione?

Sembrano dire, sgranando le iridi violacee:

noi che siamo qui per un capriccio di maree

e temperature sappiamo che qualunque sia

il nostro viaggio, in sé trova senso.

Sembrano chiedere: ma voi?

Avio otus

Ha un metro di apertura alare e ne misura

mezzo nei casi segnalati più notevoli,

ma il gufo che ci siamo visti passare

davanti agli occhi carezzati dalla brezza scura

mossa dal suo volo pareva disprezzare per natura

ogni vano afflato di misura, allungando l’ombra

del suo corpo nelle ombre della sera spezzata

dalla sua comparsa e subito scomparsa,

linea retta di volo dall’occidente

vuoto di sfere alla luna orientale,

rotta offerta in fruscio al nostro bisogno

immediato di ragioni: perché un volo così basso?

Perché rasente la scarpata che divide

dal resto ciò che è nostro?

Il suo passaggio, lacerando il quadro orizzontale

che davanti si offriva e uscendone

senza concessioni alla platea,

spezzava la nostra propensione al retroscena.

Da Stefano Bortolussi I labili confini (Interno Poesia, 2016).

     

Cos’è per te la musica della poesia?

La musica è la dimensione prima della (mia) poesia, detto senza mezzi termini. Che sia quella del verso singolo, della strofa o dell’intero componimento, mi ritrovo sempre a cercarla, sia nelle prime stesure che nelle infinite riscritture, alla ricerca di una — come definirla? — cantabilità distesa e direi quasi galoppante, molto lontana dalle spezzature e dalle afonie di certa avanguardia che, vecchia ormai più di un secolo, continua peraltro a trovare epigoni. Niente in contrario, intendiamoci: in poesia tutto è concesso e, oserei dire, tutto è dovuto; ma la mia strada è un’altra, e più che di frenate, sterzate e retromarce è fatta di lunghi rettilinei e curve morbide, con un tornante o due a mutare di quanto in quando la prospettiva e spaiare le carte.

La lettura (ad alta voce) del testo poetico: qual è secondo te il rapporto della voce col testo e come consideri il tuo “modo” di leggere?

Uno dei punti fermi più frequentati da chi scrive o parla di poesia è quello che chiama in causa la cosiddetta voce dell’autore. Se questo vale in sede critica, a maggior ragione è una condizione fondamentale di chi la poesia la scrive in prima persona. Parlare la poesia è una pratica fondante, direi quasi una fase vera e propria della scrittura — perché parlandola, il poeta la fa parlare. Questo naturalmente vale anche per la lettura, perché con un’arte metamorfica e cangiante come la poesia leggere è quasi un creare a posteriori, un ri/scrivere il verso già scritto secondo lo stato d’animo, la sensibilità e gli strumenti culturali di colui o colei che legge. Borbottare, recitare, canticchiare, declamare il verso lo apre a sempre nuove visioni e (se proprio necessario) interpretazioni.

Come definiresti o descriveresti la poesia e il suo rapporto con le altre arti?

Io vedo e vivo la poesia come una sorta di continuo, reiterato big bang, come l’origine e il motore primo di ogni scambio creativo col mondo; ma devo ammettere che in questa visione potrebbe esserci una dose abbondante di autoreferenzialità, poiché Madre Natura ha pensato bene di concedermi il dono della parola scritta (fino a che punto abbia agito bene non sta a me dirlo). Un musicista, per esempio, potrebbe dire la stessa cosa della musica, e non mi sentirei certo di biasimarlo per questo (o, visto che siamo in rete, di insultarlo). Perché, allora, non relativizzare il tutto, proponendo una visione della poesia come uno degli organi vitali, così come la musica, le arti visive, il teatro, la narrativa, il cinema, alla sopravvivenza di quell’organismo delicatissimo e magico che è l’universo? Il cuore pulsante, magari?

Oltre che poeta sei anche traduttore dall’inglese: d’altra parte i grandi poeti sono sempre stati anche traduttori. Quanto influisce un rapporto a stretto contatto costante con altre lingue nella tua scrittura?

Ti ringrazio per il sillogismo, che il lettore generoso potrà portare a compimento in privato. Scherzi a parte, la traduzione e il rapporto di osmosi con l’altra lingua (qualunque essa sia) è stato e continua a essere fondamentale per la mia poesia — proprio per quello scarto che la traduzione ti insegna molto presto ad accettare, e che è quello tra progetto e risultato. Chiunque vorrebbe fare la traduzione perfetta, ma presto scopri che è ontologicamente impossibile. Alla stessa stregua, quante volte capita al poeta di partire con un’idea e ritrovarsi con un verso, una strofa, una poesia che la tradiscono? Il segreto è che in questo tradimento ci siano due cose: la pepita dell’intenzione originaria e il germe di un qualcosa di nuovo, e forse di migliore.

Presente, sempre, nei tuoi testi è la realtà americana, dove appaiono animali – quasi in un bestiario che emerge dai versi. Un poeta che si “sdoppia” tra la lingua italiana e la California, con i suoi spazi, i suoi suoni. Cos’è per te la tua “patria poetica”?    

La mia patria poetica è la sua stessa inesistenza. Nel mio vivere scisso tra Italia e California ho trovato, ormai da tempo, la ragione d’essere della mia poesia. Un breve ciclo di inediti recenti si intitola non a caso “Esilienze”, termine coniato da me medesimo con la fusione di “resilienza” (che adesso va molto di moda) ed “esilio”. Il mio è un costante, elastico esilio mentale, che mi porta a vedere le mie due terre (quella in cui sono nato e quella d’elezione) nei loro aspetti, come dire, mitopoietici. E così la California, con il suo universo naturale ma anche culturale e di costume (Hollywood e dintorni) si trasforma in un mondo altro, in cui mi è possibile vedere una splendida surfista appena emersa dalle acque come una reincarnazione di Afrodite, o celebrare la contiguità del regno animale (mia suocera che incrocia un puma tornando a casa dal lavoro…) come un’appassionante invasione panteistica, una ierofania che chiede solo di essere cantata. E così torniamo dritti alla prima domanda…

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