La giuria del premio Murazzi 2017 non ha avuto dubbi: è rimasta conquistata dal libretto di Nicola Duberti, agile di pagine e di versi ma denso e ricco di significato: La stagione delle cose è «una delle crestomazie più efficaci della modernità di scrittura in campo poetico, con vasti echi e risonanze sul background della civiltà Occidentale, nella sua fastosa e affaticata sensazione di sazietà delle esperienze». Così il consesso capitanato da Sandro Gros-Pietro ha assegnato il primo premio e la dignità di stampa al nostro concittadino, che si conferma una delle voci più significative del monregalese. Nicola Duberti ha sempre avuto nel dialetto il centro del suo lavoro letterario, artistico e linguistico visto che è anche ricercatore di dialettologia con diverse pubblicazioni alle spalle. Stavolta però ha scelto di affidare all’italiano il suo messaggio: solo un componimento della raccolta è in dialetto. La stagione delle cose è un curioso viaggio nei meandri del tempo. Le tappe di questo viaggio sono le stagioni, o come scrive Gros-Pietro nella sua prefazione “stazioni”: «C’è un ossimoro camuffato nel titolo, perché “stagione” sta per dimora ovvero per stazione, e ci fornisce un concetto di durata delle cose che ci circondano: della realtà in cui siamo immersi». Cose che in realtà ci appaiono così effimere. Così, attraverso queste stagioni, l’autore porta avanti una sua personalissima indagine sul tempo, su come conoscerlo, capirlo, affrontarlo. Come una persona che cresce e matura nel suo percorso e cambia approcci e punti di vista sulle cose, pur mantenendo in sé la genuinità del suo sguardo e l’essenza più vera della propria personalità, Duberti prova ad approcciare al tempo da diverse direzioni, cercando disperatamente di posare lo sguardo sui suoi contorni inafferrabili. Nelle pagine trascorrono la stagione del ballo, delle bambole, del vino, della scienza e del viaggio. Poi, la stagione dei bilanci, che, com’è naturale, conclude il libro.
«La stagione delle cose viene da testi che tenevo nel cassetto da una decina di anni – ci racconta Nicola – il concorso I Murazzi, indetto dall’associazione Elogio della poesia di Torino, è stata l’occasione per tirarli fuori ed è andata molto bene».
Raccontaci in breve che cos’è La stagione delle cose.
«È un libro a incastri, suddiviso in sei sezioni tematiche, le “stagioni” del titolo. In realtà sono poesie nate estemporaneamente, poi mi è venuta l’idea di costruire un percorso su una cosa che le accomunava tutte: in qualche modo affrontavano tutte il tema del tempo. Così le ho raccolte in queste stagioni, a seconda dei temi e delle suggestioni. Ad esempio, la stagione delle bambole, queste possono essere sia i giocattoli che le ragazze, dando vita a un curioso accostamento tra infanzia e amore. In effetti tutti i componimenti di quella sezione in qualche modo danno una visione obliqua sul tema della storia d’amore, che viene affrontata dal punto di vista di uno sguardo quasi fanciullesco. Poi non ci sono solo liriche amorose, anche testi sull’infanzia, sul gioco comunque tutte portatrici del punto di vista del bambino. La stagione del vino affronta il tema della festa, dell’ebbrezza. Con la stagione della scienza tento l’approccio più razionale al tempo e al mondo, quello con cui ti confronti quando cresci, e infatti ci sono alcune poesie dedicate alla scuola. La stagione del viaggio affronta un tema noto alla letteratura e alla filosofia: l’avventura di ingannare il tempo percorrendo lo spazio. Forse questa è la parte in cui lo sguardo è meno infantile, o comunque in cui si percepisce meno. La chiave del lavoro, o la soluzione, se ce n’è una, sta nelle tante esperienze che si fanno nella vita, con cui si cerca di andare oltre la trama del tempo. Alla fine, l’unica cosa che resta, se togli tutte queste cose, è lo sguardo, il punto di vista del bambino. I testi sono tutti a verso libero, ma sono tutti versi strutturati secondo la tradizione: quinari, senari etc etc. C’è lavoro sul ritmo e sulla struttura del singolo verso, piuttosto che una gabbia metrica che regola l’intero componimento».
La giuria del premio Murazzi nella motivazione del premio parla di: «modernità di scrittura in campo poetico con vasti echi e risonanze sul background della civiltà occidentale». È interessante questo giudizio applicato a uno scrittore come te che è sempre stato molto legato al locale e alla tradizione.
«Come succede in realtà a tutti i poeti locali a Mondovi come Remigio Bertolino ad esempio, anche la produzione in lingua locale è solo apparentemente locale. In realtà gli spunti, le suggestioni sull’attualità, le aperture al mondo sono presenti anche nel dialettale, anzi forse ce ne sono addirittura di più, è solo meno evidente. In qualche modo nell’italiano sembra più normale parlare di certi temi. Io credo ci fossero molti più echi e ganci con l’attualità nella mia ultima raccolta in piemontese (J’òmbre’nt le gòmbe, Poesie nelle parlate monregalesi di Viola e del Kje, edito dal Centro studi piemontesi nel 2013) che in questa. Certo, sono più destrutturati, meno percepibili, meno evidenti a una prima lettura. Viceversa, c’è anche tanta tradizione e tanto locale in Le stagioni. La verità è che è tutta una questione di percezioni. Siamo meno abituati a leggere una poesia dichiaratamente locale in italiano e ci fa strano leggere una poesia in dialetto che parla di un altro contesto. Tavo Burat ha pubblicato alcune poesie dedicate agli Hainu del Giappone ed ha lasciato di stucco molti lettori».
Questo potrebbe anche essere dovuto alla sorpresa del dialetto utilizzato per parlare di mondi e contesti così diversi, in cui potrebbero mancare persino le parole e gli strumenti per esprimersi.
«No, non credo che il dialetto sia più debole o meno adatto dell’italiano, anzi. Potrebbe addirittura avere degli strumenti e delle sfumature in più per esprimersi, anche su cose lontane. Credo sia proprio una questione di percezione nostra».
Nella scrittura hai sperimentato praticamente ogni esperienza, quella del saggista, quella del narratore e quella del poeta, in tante forme. Dialetto, haiku, verso libero…. A compimento di questo percorso qual è quella che ti rappresenta di più? Come vivi il lavoro in campi così distanti? Sono cose completamente diverse o solo punti di vista e linguaggi differenti nel raccontare le cose?
«Io non li percepisco così diversi, è chiaro che fare saggistica significa affrontare un tipo di scrittura con regole ben precise e un approccio completamente diverso rispetto a quello della poesia o del romanzo. Il problema che avverto io nel fare tante cose è che temo che non si riesca a raggiungere mai l’abilità di chi si dedica ad una sola cosa per tutta la sua carriera. Questo è un po’ un rischio. Ad esempio io avrei voluto fare tante cose nel campo del romanzo che non sono ancora riuscito a fare».
È vero, però chi frequenta tanti tipi di scrittura ha una freccia in più al proprio arco: può combinarli, creare nuove formule innovative, nuove contaminazioni.
«A quel punto però diventa difficile confrontarsi con l’editore, che ha bisogno di un prodotto ben definito da proporre al suo pubblico, sia nel genere che nei contenuti. Naturalmente il discorso non si pone nemmeno nella poesia, visto che attualmente non vende. Però se scrivi poesia è chiaro che hai degli obiettivi ben precisi e le vendite non rientrano tra questi».
La commissione del Murazzi ha individuato tra i temi de La stagione delle cose la «casualità nelle cose che accadono» e l’«infinità delle connessioni». Secondo te l’aumentare delle seconde ha ampliato a dismisura la prima? Siamo destinati ad essere sempre di più barchette nella tempesta sballottate dal capriccio del vento senza poter muovere il timone o c’è ancora speranza di poter guidare il nostro percorso a dispetto di tutti?
«Mi fai un domandone: Non so se sia possibile guidare il percorso sinceramente, ma non so se sia una cosa che sia mai stata possibile. Possiamo però sicuramente dare un senso al tragitto guardandolo a posteriori. Io sono sempre stato convinto che la vita sia come un viaggio in mongolfiera. Tu sai dove ti piacerebbe andare e cerchi di andarci, però se il vento decide diversamente devi arrenderti al suo volere, assecondarlo, senza perdere di vista il suo obiettivo. In questo modo il tuo può essere comunque un viaggio, anche se esposto, come ogni avventura, all’imprevisto. Altrimenti è solo un vagare casuale».
La poesia, che in tutta la sua storia ha sempre avuto una forte attenzione alle sensazioni, alla concretezza delle cose negli stimoli che danno ai cinque sensi, come può affrontare il digitale, che nel mondo di oggi sta diventando sempre più parte della quotidianità. Come si fa una poesia del digitale?
«Io non credo che la poesia si trovi male nel mondo digitale. Lo vedo sostanzialmente come un’espansione del mondo reale, un’altra dimensione, un altro modo di viverlo ma niente di più. Le cose non smettono di esistere perché c’è il digitale. Abbiamo sempre bisogno di oggetti, la nostra vita è sempre fatta di manufatti, di pezzi, di cose. Semmai siamo noi a sbagliare a volte, e considerare il mezzo per il fine, vivendo il digitale come un qualcosa di reale. Queste cose però sono sempre esistite: penso, ad esempio, a uno come Pessoa, che ha vissuto le storie d’amore praticamente solo per lettera. È stato un grande poeta, ma le sue storie d’amore sono state esclusivamente epistolari. Viveva il suo amore solo sulla carta. È tanto diverso da chi adesso vive l’amicizia, l’amore, i sentimenti solo su chat e videochiamate?»
Uno sguardo sulle sei stagioni di Nicola Duberti.
Le stagioni delle cose, appena uscita per i tipi della Genesi Editrice, è la seconda silloge poetica in lingua italiana di Nicola Duberti, poeta monregalese che ha invece all’attivo numerosissime liriche e raccolte in lingua piemontese. Solo una lirica in questo volume è in piemontese (con testo a fronte): si tratta di “San Giovese / 1”, componimento che inaugura la sezione dedicata alle “Stagioni del vino”, quasi che del vino (e del campo semantico interconnesso) non si potesse parlare che nella vera lingua-madre: in vino veritas, del resto. Per il resto, una raccolta italiana, a otto anni da Il taccuino del barbiere chirurgo (2008), premiata al premio “Murazzi” per l’inedito del 2016: la struttura è divisa in sette parti, un'introduzione con invocazione alla musa seguita dall’alternarsi di sei diverse “stagioni” legate a concetti specifici (i viaggi, i bilanci) o meglio ancora ad oggetti fisici (il vino appunto, le bambole), che possono forse esser letti come impalpabili correlativi oggettivi, estremamente sfumati (forse non a caso una lirica ci illustra tredici sfumature di nebbia). In apertura una Invocazione alle Muse, che mette in evidenza il paradosso del poeta di età cristiana che rispetta tale precetto per una convenzione ormai consunta: una contraddizione già dantesca, e non a caso la prima stagione, quella del Ballo, si chiude con una “serata su-Dante” che è anche, in parte, ironica demistificazione del mito del “poeta laureato”. Ma anche in molte altre liriche (Fiaba, la già citata San Giovese) ricorre nell’Io Lirico una relazione ironica e blandamente problematica col proprio cattolicesimo, che pervade la stagione delle Bambole e chiude la lirica ubriacatura di quella del Vino (“lucenti squame di Verbi sospesi./Muoiono lenti a strisce orizzontali./Al crocifisso spuntano le ali.”). La stagione della Scienza si apre con l’amara ironia de “Il mito della razza”, un’ipotetica leggenda di pescatori sul pesce di tale nome, che in controluce lascia intravvedere mostri ben più temibili dell’umile abitante degli abissi marini (la razza di Duberti sembra quasi simmetrica al Furher/pipistrello della Primavera Hitleriana di Montale, là il Male nella sua manifestazione più visibile, qui quella sommersa). Nella stagione della Scienza non manca anche un rimando alla propria professione scolastica (“Postazione cattedra”) tratteggiata come algida distanza (come spesso in Duberti, forse in una sorta di schermo ironico). La sezione del viaggio conduce poi alla singola lirica finale dei bilanci, la riflessione amara di “Piccoli borghesi”, un rimando che affratella l’Io lirico e l’hypocrite lecteur ideale di una raccolta di una ironica (finta) modestia quasi gozzaniana, ma particolarmente densa di significati raffinatamente incastonati, che merita indubbiamente il vaglio di più letture.