Godless, il western è femminista.

"Godless", serie Netflix meno acclamata di altre, si dimostra un caso interessante di inedito western in chiave femminista, oltre a una narrazione di ottimo livello.

Il western è un genere letterario di grande rilevanza nell’immaginario occidentale, in particolare americano. Rappresenta “l’invenzione di una tradizione” che, per alcuni, va a generare un medioevo mitico per una nazione che, in quanto tale, non ne ha avuto uno. Per noi della vecchia Europa, il medioevo è qualcosa di visibile e tangibile, ancora accanto a noi: invece, negli USA non ci sono torri e castelli per far sognare di gesta di prodi cavalieri, malvagi terribili e donzelle in pericolo, e così si è creata una epopea alternativa dove ritornano gli stessi valori, certo fondata su rimandi reali ma profondamente rielaborata fino a divenire un mito. Ne consegue che il western tende ad avere valori di fondo sostanzialmente maschilisti, almeno nella sua accezione più classica e tradizionale; e non sono molti i tentativi di aggiornare, o addirittura ribaltare, questa struttura di fondo.

“Godless”, recente serie Netflix  ideata da Steven Soderbergh e Scott Frank, cerca invece di farlo. Il titolo significa “Senza Dio”, e può essere un rimando sia al terrificante antagonista, uno spietato e folle capobanda di desperados che si atteggia a pastore, sia a quella terra di Far West dove nessuno spesso sa far rispettare la legge, e perfino l’esercito ha paura di scontrarsi con la banda di senzadio che terrorizza la regione. Nella prima puntata, scopriamo che il prossimo obiettivo dei desperados è una città governata solo da donne, dopo la morte accidentale di tutti gli uomini nel crollo di una miniera. Si creano così le condizioni più classiche per uno scontro di tipo epico, con i buoni apparentemente in netta inferiorità tecnica sui nemici. La cosa interessante, ovviamente, è che fin dalle sue prime mosse Godless si chiarisce western moderno, realistico e spietato: la vittoria dei buoni non è quindi affatto da dare per scontata come nel classico happy end hollywoodiano. La preparazione dei due schieramenti allo scontro crea una tensione tipica di ogni ben scritta narrazione d’assedio: non si può non pensare ai “Sette Samurai” (1954) di Kurosawa, non a caso riadattato in chiave western nel meno grandioso “The Magnificent Seven” (1960). Solo che qui non vi sono validi aiuti esterni alle donne assediate, e l’epica del villaggio (tutto al femminile) è bilanciata solo dalla redenzione di un singolo antieroe, che non assume una funzione di guida. Certo ci sono anche figure maschili parzialmente positive, ma in controluce il messaggio di autosufficienza rivendicato è molto evidente. Insomma, una serie davvero avvincente nel suo sviluppo e caratterizzata da un brillante messaggio di empowerment femminile. 

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