Paolo Calabresi “Qui e ora”: una chiacchierata tra teatro e cinema

Paolo Calabresi racconta "Qui e ora" la commedia di Mattia Torre che interpreta insieme a Valerio Aprea. Lo spettacolo era originariamente previsto per sabato, ed è stato rinviato al 18 marzo per gravi problemi familiari di uno dei due interpreti. La visione artistica dell'attore romano in una chiacchierata a tutto tondo, dal lavoro teatrale al cinema italiano contemporaneo

Sul raccordo anulare, due scooter si scontrano, i conducenti restano bloccati sulla strada, nella periferia degradata romana, in attesa dei soccorsi, che tardano ad arrivare. Uno spunto di partenza più realistico, più aderente alla quotidianità, non ci poteva essere, per “Qui e Ora” la commedia di Mattia Torre che Paolo Calabresi e Valerio Aprea porteranno in scena sabato sera al Teatro Baretti di Mondovì. Lo spettacolo è il quinto appuntamento della stagione teatrale organizzata dal Comune, in collaborazione con la Fondazione Piemonte dal Vivo. L’autore del testo, Mattia Torre, ha sceneggiato alcuni dei lavori più interessanti visti in televisione o al cinema negli ultimi anni. È tra gli autori della serie “Boris”, divenuta un vero e proprio Cult, e recentemente è stato trasmesso il suo “La Linea Verticale” su Rai 3, in cui tratta il dramma della malattia con un taglio piuttosto inedito. “Qui e ora” racconta, attraverso lo scontro di due personaggi, costretti dalle circostanze ad un’attesa snervante, nella fretta delle loro esistenze, le derive della società contemporanea, popolata da individui sempre più arrabbiati, sempre più indifferenti, sempre più egoisti e, in definitiva, sempre più soli. Ne abbiamo parlato insieme a Paolo Calabresi.

«”Qui e ora” è stato scritto da Mattia Torre, uno degli autori di Boris e l’autore della “Linea Verticale”, recentemente su Rai 3, è una commedia molto feroce, ambientata in una strada non identificata della periferia romana. Il sipario si alza pochi secondi dopo un incidente stradale tra due scooter: i due protagonisti sulla scena attendono i soccorsi per tutta la durata della commedia e nel frattempo ingaggiano una ferocissima guerra verbale, in cui uno dei due sembra ricoprire il ruolo del prevaricatore e l’altro della vittima. Con il trascorrere del tempo e con l’inasprirsi dello scontro dialettico, però, la situazione si farà ben più complessa. Insomma, fondamentalmente si tratta di una situazione simbolica, che parodizza gli atteggiamenti della società civile nelle situazioni di emergenza. Non c’è collaborazione, non c’è empatia e spesso si finisce con il cercare, semplicemente, la prevaricazione sull’altro».

Leggendo la trama di questa commedia la prima cosa che salta agli occhi è la generale analogia con un classico senza tempo del teatro: “Aspettando Godot”. Là due personaggi occupavano il loro tempo vuoto nell’attesa di un personaggio che non sarebbe mai arrivato, qua due contemporanei, assillati dalla fretta e dai mille impegni della vita moderna, attendono i soccorsi dopo l’incidente.

«Sì, chiaramente il modello Beckett è presente, però almeno in questo caso la metafisica c’entra poco, perché i nostri personaggi sono mossi da bisogni molto più impellenti e molto più terra-terra: Arturo, che io interpreto, è l’egocentrico conduttore di un programma radiofonico sulla cucina. Vuole raggiungere gli studi televisivi a tutti i costi, perché deve andare in onda di lì a poco, solo quello gli interessa. Il rimando ad “Aspettando Godot” è forse più presente a livello di struttura generale: anche gli scambi comici dei due personaggi sono diversi. In questo spettacolo, tra i due protagonisti, si instaura un vero e proprio duello verbale di grandissima ferocia. Il tema qui, il senso più profondo alla base di questo testo, è la sopraffazione».
Il tuo personaggio, Aurelio, è egocentrico, ansiogeno, mentre il personaggio di Valerio Aprea è sottomesso, passivo, un uomo arreso. Il tipo che subisce in silenzio per mesi e poi, inaspettatamente, esplode con una violenza inattesa. È un po’ la caricatura dei due tipi umani del nostro tempo.
«Sì, è esattamente questo, ad un certo punto della trama i ruoli che i due personaggi sembrano assumere all’inizio si confondono, non è più chiaro allo spettatore chi sia la vittima e chi sia il carnefice. Il tipo di scrittura comica di Mattia Torre, sceneggiatore con cui ho già lavorato, in “Boris” e ne “La linea Verticale”, riesce a suscitare inaspettatamente la risata con questi dialoghi estremamente spietati. È una delle cifre stilistiche principali della sua scrittura».
Un po’ sulla scia di un certo filone della commedia all’italiana, di cui, ad esempio, il “Fantozzi” di Villaggio è stato uno degli esempi più significativi.
«Esatto, sono d’accordo, anche qui ricorre quello stesso meccanismo comico in cui, paradossalmente, la risata scaturisce da situazioni che, prese per quello che sono, nella loro oggettività, raffigurano una crudeltà insostenibile.
In qualche modo in questo spettacolo è centrale anche il tema della solitudine. I soccorsi che non arrivano, oltre che la satira di un paese in cui spesso lo Stato fatica a ottemperare ai suoi doveri, sono anche la metafora di due individui lasciati soli, e forse anche per questo, così cinici e incattiviti.
«È vero, anche questo è una caratteristica tipica del lavoro di Mattia: se ci pensi anche in Boris tutti i personaggi, al netto dei tormentoni e delle situazioni comiche, erano persone molto sole e disperate, che tentavano di portare a casa la giornata sopravvivendo ai propri problemi, personali e di lavoro. Il tema della solitudine è sicuramente centrale nella sua poetica».

Hai già collaborato a diversi progetti con Mattia Torre e con il tuo partner in scena, Valerio Aprea. Com’è nata questa collaborazione?

«Fondamentalmente è nata sul set di Boris: ci siamo trovati molto bene a lavorare insieme. Io e Mattia siamo sulla stessa lunghezza d’onda, le sue sceneggiature mi interessano sia dal punto di vista dei temi trattati che da quello del modo di trattarli, e anche con Valerio condivido interessi e senso dell’umorismo. In realtà si è formato negli anni un bel gruppo di attori abbastanza in sintonia quanto a idee e visione artistica, ad esempio, oltre allo stesso Valerio Aprea, Valerio Mastandrea, Pietro Sermonti, Ninni Bruschetta, Edoardo Leo, per citarne alcuni. Spesso ci troviamo a condividere progetti insieme. Non sempre si riesce a trovarci tutti sullo stesso set, ma diciamo che, quando è possibile, ci piace partecipare a lavori che vadano in una certa direzione, quella di un cinema comico che non trascuri la qualità del testo e che abbia un occhio lucido sulla realtà che ci circonda. La trilogia di “Smetto quando Voglio” di Sidney Sibilia, un altro giovane autore molto valido, ne è un recentissimo esempio».

Insomma è corretto dire, come a volte si sente dai media e si legge sui giornali, che è in atto una vera e propria rinascita della commedia all’italiana, sulla falsariga dei modelli degli anni ‘60-‘70 di Risi, Germi, Scola, Monicelli?

«In parte sì, anche se meno di quello che ci piacerebbe. Ci sono diverse sacche di resistenza: all’interno del cinema c’è sempre qualcuno che pensa che basti buttare qualche nome famoso sul cartellone per fare buoni risultati al botteghino, senza curarsi della qualità della sceneggiatura e del contenuto, cercando sempre la risata innocua, di circostanza, e il disimpegno più totale. A mio avviso è importante che il cinema abbia una sostanza, delle idee forti, che ci sia prima di tutto un solido lavoro autoriale».
Hai avuto una ricca e poliedrica carriera, sei stato un volto noto al cinema e in televisione, ma non hai mai trascurato il teatro in cui hai interpretato tanti ruoli classici, ti sei confrontato, tra l’altro, con Gogol, Ronconi, Pirandello, Strehler, Albertazzi. Questo versante della ricerca e del lavoro teatrale come influisce sulla ricerca comica, sulla costruzione dei personaggi più disimpegnati del cinema e della tv? Sono due lati completamente separati o c’è uno scambio di influenze?
«Di primo acchito ti risponderei di no, anche se in realtà non saprei dire: chiaramente sono tutte esperienze che entrano a far parte del mio bagaglio professionale, del mio lavoro. Fa tutto parte della crescita dell’attore e quindi è possibile che, senza nemmeno pensarci, utilizzi degli strumenti che sono derivati dal lavoro sui ruoli classici per fare quelli più disimpegnati o più comici. Direi, allargando lo sguardo, che sono contento di essere riuscito, negli anni, a giocare su così tanti fronti: è stata in parte una necessità, io non sono uno di quegli attori che possono permettersi di scegliere sempre cosa fare, anche perché ho una famiglia di quattro figli da mantenere. In parte però è stata una scelta lucida e consapevole: spesso negli attori c’è una sorta di snobismo, si dedicano unicamente a certi ruoli e “non si abbassano” a farne altri più comici e popolari. In realtà però spesso hanno semplicemente paura di farli e fallire. Il teatro classico è una risorsa importante, anche se fare solo quello tende a chiuderti un po’. Io ho cercato il più possibile di allargare la visuale ed essere versatile».

Ultima domanda: ma degli straordinari d’aprile, quelli per Libeccio, che ne hai fatto?

(con l’inconfondibile voce dell’elettricista Biascica) «Me li sò bruciati. Me saranno durati al massimo un mese, un mese e mezzo. Del resto c’ho famija. Te saluto Francesco Totti Biascica, stà qua con me».

Paolo Calabresi

Nasce a Roma nel 1964. Si diploma nel 1990 al “Piccolo” di Milano, con Giorgio Strehler. Ha alle spalle una carriera ricca e poliedrica, tra cinema, teatro e televisione. In teatro ha lavorato tra gli altri, con Strehler, Ronconi, Castri e Missiroli, confrontandosi con i grandi classici della letteratura teatrale. Al cinema e in tv ha partecipato, tra le altre cose, a “Il talento di Mr. Ripley”, “I vicerè”, “Diaz”, “Tutta colpa di Freud”, “Smetto quando voglio” e “La corrispondenza”. Ha interpretato il ruolo di Augusto Biascica nella serie televisiva “Boris”, ed è stato un inviato del programma “Le Iene”.

Valerio Aprea 

Nasce a Roma nel 1968, si diploma al Conservatorio teatrale “G. B. Diotajuti” e successivamente si laurea in Storia del cinema a “La Sapienza”. Comincia come attore teatrale e dagli anni 2000 comincia a lavorare anche per il piccolo e grande schermo. Al suo attivo, tra le altre cose, ha “Eccomi qua”, “Non prendere impegni stasera” “Ho voglia di te”, “Diciotto anni dopo”, la trilogia di “Smetto quando voglio” e “Moglie e Marito”. Ha partecipato alle serie televisive “Ris-Delitti imperfetti”, “Boris”, “Il Maresciallo Rocca”, “Ho sposato un calciatore” e “Tutti Pazzi per amore 2”.

Mattia Torre

Nasce a Roma nel 1972. Stringe un sodalizio artistico con Giacomo Ciarrapico e Luca Vendruscolo, con cui scrive diverse commedie teatrali e, successivamente, sceneggiature per cinema e televisione. I più grandi successi del trio sono senza dubbio le serie tv “Boris”, una satira sul dietro le quinte della fiction televisiva, e “Buttafuori”, costruita sui dialoghi di due improbabili buttafuori filosofi, che si occupano della sicurezza all’esterno di una discoteca. Nel 2003 Il suo monologo teatrale “In mezzo al mare”, interpretato da Valerio Aprea, ha vinto la rassegna “Attori in cerca d’autore” al Teatro Valle di Roma.

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