Una serata al “Forrest Camp”

Rock indipendente e belle scoperte al minifestival della Cascina Macramè. Super set dei Vanarin  

È possibile, per un monregalese, perdersi a Pascomonti? A quanto pare sì ed è giusto: quando un uomo nato e cresciuto a Mondovì, per di più a Carassone, si affida a Google Maps per scoprire qual è il percorso più rapido che lo porti alla Cascina Macramè. Non essendo un assiduo frequentatore, non ne ricorda benissimo l'ubicazione: è giusto che egli sconti i suoi peccati percorrendo un dedalo di viuzze di campagna di cui ignorava l'esistenza, con la mente offuscata e la nebbia dell'ira nel cuore, prima di individuare una colonna di automezzi parcheggiati allegramente sul ciglio della strada, segno certo che la meta è vicina. In effetti è sufficiente scendere dalla macchina per udire le prime schitarrate portate dal vento. Sul palco ci sono i volenterosi Sinopia, giovane band dalle idee chiare, almeno sul tipo di rock, moderno e grintoso,  che intende suonare.

Un cartello in legno, che ha tutta l'aria di essere stato ricavato di fresco da qualche asse di scarto e qualche dito di minio, conferma infine che, in fondo ad una rustica discesa, si trova il festival indipendente monregalese; poco reclamizzato e organizzato con mezzi francescani: tant'è che all'ingresso, comunque libero, i visitatori trovano un banchetto con due volontari («Sbaglio, o il piano del tavolo è ricavato da una vecchia porta?» «Esattamente») con una piccola scatolina, anch'essa frutto del "fai da te" e dall'aspetto decisamente punk, in cui versare un modesto obolo, da destinarsi alla replica dell'evento l'anno prossimo. Lo spirito del Forrest Camp, in tempi di Circolare Gabrielli, di eventi sempre più grossi, dispendiosi, glamour, è un vero toccasana: con quel suo spirito casalingo riporta a un'idea di libertà che avevamo un po' dimenticato, forse credendola ormai impossibile di questi tempi. Negli spazi della cascina Macramè trovano asilo gli appassionati di musica monregalesi. Sotto la tettoia possono rifornirsi di birra artigianale e pochi passi più in là, assistere ai live, sul palco normalmente adibito alle esibizioni circensi. La band è allo stesso piano del pubblico, a pochi passi. Un'atmosfera raccolta, quasi familiare, in un tripudio di watt. Già perché tutte le band in scaletta hanno tutte una notevole potenza di fuoco, almeno in questo nessuno ha voglia di risparmiare. Non ce l'hanno i Carmina Retusa, che hanno nell'hardcore il loro credo, né i John Walker and the Gibas, con il loro sound strampalato e originale, a metà tra il country e il rock 'n roll degli anni 50 e il post punk-new wave degli anni 80. Atmosfere spaziali e ruspanti e polverose strade di campagna, il tutto nella stessa canzone. Poi è la volta dei Nitritono, batteria e chitarra, affiatamento e sperimentalismo.

Riff chitarristici furibondi si alternano a pattern ritmici, in brani che alternano continuamente atmosfere psichedeliche a momenti più martellanti, con il chitarrista intento a maltrattare lo strumento in tutte le maniere possibili ed lanciarsi in ruggiti growl devastanti nei momenti culminanti delle performance.

Più tradizionali i John Holland Experience, ma non troppo. Il nome è un richiamo preciso a modelli anni '60-'70 e a una certa idea di rock, sensuale e psichedelico, che viene riletto alla luce della tradizione successiva, delle sonorità calde del palm desert, di una cazzimma inesausta, proveniente dai garage di Seattle e dalle cantine americane. Poi tocca a loro, gli ospiti d'onore. Arrivano da Bergamo, sono i Vanarin e davvero sono un curioso progetto. Hanno le loro radici fisiche in terra d'albione come nella città della Bassa padana: il frontman è un cantautore inglese, mentre i componenti provengono tutti da "quel ramo del lago di Como".

Le loro radici musicali sono talmente estese e diramate da essere impossibili da rintracciare. Nei pezzi dei Vanarin ci puoi trovare di tutto, innestato su una solida matrice british, che risente del brit–pop anni ’90 scuola Blur e Oasis come della lezione dei Beatles e dei Pink Floyd. C'è tutto, il cantautorato, la psichedelia, sintetizzatori spaziali e hammond dal sapore blues.

Ci sono i 2/4 marcetta, i tempi dispari, i pad elettronici della dubstep, i suoni delle ultime tendenze. E tutto, tutto, quello che esce dagli amplificatori è suonato dal vivo. Non ci sono basi, né sequenze, e questo è quasi commovente, in un mondo in cui c'è gente che si porta dietro i suoni registrati pure per eseguire canzoni pop dalla struttura musicale così semplice che, al confronto, Francesco Guccini sembra Wolgang Amadeus Mozart. Il risultato va sicuramente un po' metabolizzato: come il sapore di un buon vino, le canzoni dei Vanarin vanno riascoltate più volte per essere apprezzate al meglio, ma ci sono sicuramente spessore e qualità. È un progetto che merita l'attenzione degli appassionati di musica.

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