Ricordo bene la prima volta che ho assaggiato un vero caffé lungo all’americana, nel campus universitario di Davis, California. Lo reggevo, bollente, in una mano mentre con l’altra cercavo di afferrare un muffin ai mirtilli grosso così senza farlo cadere. Dopo aver pagato cinque dollari mi sono voltato e per qualche istante, complice il jet lag, ho avuto il dubbio di trovarmi davvero lì, in quel telefilm vissuto mille volte in televisione, ma che proprio per questo credevo fosse fatto della stessa sostanza evanescente, mitica e sognante di cui è fatto Spiderman. Mi sembra di sentire ancora il sapore di quel primo sorso e, per quanto moltissimi aspetti della cultura americana siano arrivati dirompenti in Italia già 70 anni fa, quello del rito del caffé lungo (brewed, o drip per gli hipster, non americano, in quanto quest’ultimo è semplicemente un espresso allungato) in un bicchiere di carta da mezzo litro era ancora uno degli ultimi baluardi inespugnati nel paese che pensa di avere il miglior caffé del mondo.
E, incredibilmente, non sto parlando del Brasile.
È tipico delle culture dominate quello di arroccarsi nei nel proprio orticello difendendolo contro il mare in tempesta del progresso - non c’è nulla di male nel farlo, è semplicemente inutile.
Gli antichi romani esportavano presso i popoli conquistati le unità di misura, perché sapevano che era quello il punto cruciale per il controllo di quell’impero vastissimo, mentre assorbivano la cultura, gli usi e i costumi, gli stessi dei. Gli americani hanno fatto di meglio, e sono riusciti ad esportare anche la cultura, assorbendo davvero poco se non un generico (e quindi facilmente commerciabile) amore per pizza, spaghetti e mandolino, champagne o auto di lusso. In quanto italiani siamo incredibilmente bravi nell’esportare eccellenze gastronomiche nonostante noi stessi (infatti all’estero ci venerano e, soprattutto, ci copiano), ma siamo molto più restii nell’importare elementi culinari estranei.
D’altronde, siamo i migliori del mondo e le nostre nonne (tutte quante) cucinano meglio di qualunque chef stellato. Perché perdere tempo ad assaggiare qualcosa che sappiamo già non essere all’altezza?
Siamo il paese in cui ben venga la sanità privata e il licenziamento facile, ma guai se mi tocchi la pizza.
Nel bene o nel male (non è questo il posto né tantomeno io sono la persona giusta per giudicarlo) la cultura americana è tuttora quella dominante e fino al crollo dell’impero (avverrà, come ha predetto Hari Seldon), cioé prima che subentrino i cinesi, ho sempre ritenuto un po’ ridicolo l’aver accolto a braccia aperte il turbocapitalismo mentre si difendeva con il sangue e con i denti la presunta superiorità dei nostri bar contro il malvagio impero di Starbucks. Paradossalmente, McDonald's è invece sempre stato ben accetto, come se quegli hamburger fossero meglio del bollito di Carrù.
Ma quelli erano gli anni ’80, anni di edonismo reaganiano, paninari, Milano da bere e Drive-In: l’America era presa ad esempio e solo i comunisti si ergevano a difensori del Made In Italy. Al giorno d’oggi l’America è la nemica anche (e sopratutto) per i conservatori, che vedono invece la Russia come principale esempio da seguire. In cosa, non è dato saperlo. I comunisti nel frattempo sono tutti finiti in coda all'Ikea.
Ciò che vende McDonald's non è un panino (che vuoi mettere la micarissa con salame e toma?), ma l’idea di poter prender parte, con un morso, a quella cultura pop d’oltreoceano con la quale siamo cresciuti. Basta un Big Mac e siamo subito americani, perché va bene le moto e jeans e il rock, ma è il cibo ciò che definisce un popolo e una cultura. E anche una religione.
Crolla l’ultima barriera
Se da qualche anno sono sorte ovunque in Italia un sacco di burgerie più o meno gourmet le quali, senza raggiungere le vette di gusto di un lurido locale americano, hanno per lo meno contribuito a sdoganare un tipo di cibo che altrimenti sarebbe rimasto rilegato tra i divani di Grease, è invece ancora francamente impossibile trovare un vero caffé lungo come dio comanda. Ed ecco che finalmente, con l’apertura del primo Starbucks a Milano (sempre in prima fila quando si tratta di importare cultura pop), crolla l’ultima barriera dell’ottuso protezionismo Made in Italy verso il caffé americano.
Fondata a Seattle, Washington nel 1971 da Jerry Baldwin, Zev Siegl, e Gordon Bowker (un insegnante di inglese, uno di storia e uno scrittore. E poi dicono che la cultura non serve!), Starbucks è diventata una multinazionale del caffé con più di 28000 coffee shops nel mondo. Ovunque, tranne che in Italia.
Almeno fino a ieri.
È, per il caffé, quello che McDonalds e Burger King sono per gli hamburger, o Pizza Hut per la pizza. “Andare da Starbucks” non significa solo andare a prendere un caffé, ma indica un’esperienza ben diversa dall’andare a gustare un espresso veloce al bancone di un bar. La coda chilometrica di ieri, tra selfie e hashtags, serva a riprova di quanto detto.
Non fraintendetemi, non ho le papille gustative interrotte, e non sto nemmeno confondendo espresso e brewed: di sicuro non andrei mai da Starbucks a prendere un espresso da 3 euro o un frappuccino, e se devo dirla tutta il loro caffé lungo è considerato da molti, negli States, tra i peggiori. Come accennato, non è nemmeno una questione di caffé in senso stretto, quanto di cosa sia il bar e come lo si voglia vivere. All’estero si va da Starbucks anche solo per passare qualche ora a lavorare sul portatile, a scrivere il proprio libro candidato per il Nobel o a mettere insieme i post che ci faranno finalmente ottenere tanti like quanto la Ferragni. È, in generale, un posto in cui passare del tempo senza che un barista mi cacci perché gli occupo il tavolino o gli “rubo la corrente elettrica”, come successo al sottoscritto proprio nella ridente nostra cittadina. Negli anni ‘80 non esisteva questa moda (esistevano le compagnie e gli amici del bar, però...) e soprattutto non ce n’era bisogno, ma al giorno d’oggi avere un posto con wi-fi in cui stare tranquilli bevendo qualcosa quando non si ha un ufficio o una casa a disposizione è diventato un bisogno abbastanza comune.
Per questo ben venga non solo Starbucks, ma chiunque voglia pensare di aprire coffee shop con questo spirito e porre fine a un luddismo gastronomico che, in nome della salvaguardia del cibo locale, sacrifica la possibilità di aprirsi ad altri sapori. L'abbiamo fatto per il sushi, il cinese, il thai e l'indiano (in media con la stessa qualità degli spaghetti con ketchup che si mangiano in Inghilterra, ma tant'é...): perché non con il caffé lungo, che se fatto bene è peraltro davvero buono?
E poi, volete mettere vedere due Carabinieri che partono all’inseguimento di un’auto in corsa in via del Rocchetto rovesciandosi addosso un litro di caffé bollente, imprecando contro la centrale mentre ancora addentano una bella ciambella?
A scanso di equivoci, nessuno si augura che ci siano solo Starbucks, per carità! Adoro i nostri bar, le nostre pasticcerie, e i nostri caffé a un euro e venti senza scontrino: la storia però ci insegna che non è certo con autarchia e protezionismo che si salvaguardano le nostre amate tradizioni. Esaltare i prodotti locali non vuole dire per forza combattere quelli esteri, tra l'altro accanendosi su quello che forse simbolicamente è l'ultimo elemento non americanizzato della nostra cultura. Anzi, è grazie a troppi hamburger di McDonald’s se ho rivalutato la soma d’aji.
Ogni medaglia ha sempre due facce.
Di sicuro vorrei che ci fossero anche Starbucks, per potermi gustare anche un sorso di America nel mio coffee shop di fiducia. Magari con un muffin ai mirtilli grosso così, nell’altra mano, mentre scrivo l’articolo che mi farà vincere il Pulitzer.
È un piccolo passo, ma significativo: per la pizza con bacon e ananas ci sarà tempo.