L’uomo che uccise Terry Gilliam

Con l’uomo che uccise Don Chisciotte l’ex Monthy Pyton regola i conti col cavaliere di Cervantes; tornando ad occuparsi di quel personaggio che avrebbe dovuto rappresentare l’apogeo della sua carriera, ma l’opera rimasta incompiuta ne decretò invece il declino.

C’è l’ha fatta Terry Gilliam a portare in scena il suo Don Chisciotte. Eterna chimera, illusione e infine anche ossessione, vede finalmente la luce a quasi vent’anni anni di distanza da quel primo disastroso tentativo incompiuto, che segnò in maniera indelebile la carriera del cineasta. La serie di eventi sfortunati, tra cui persino un alluvione, le incomprensioni e i dissidi con i produttori, bloccarono il progetto in maniera tanto clamorosa da essere documentato nel film “Lost in la Mancha” del (2002). Quel disastro segnò in modo evidente Gilliam: una ferita rimasta aperta che il regista non nasconde affatto, tant’è che nella didascalia iniziale di questo film, dichiara letteralmente: “e ora dopo venticinque anni a fare e disfare…”, segno evidente che il progetto ha continuato a lievitare nonostante l’impegno in altre produzioni. In questo lasso di tempo però Gilliam comincia ad inanellare insuccessi e delusioni, nonostante il suo stile da saltimbanco moderno, visionario e barocco, onirico e tragicomico sia rimasto immutato. In queste due decadi il suo carrozzone ambulante d’artista si muove a vuoto da un genere all’altro. Dalla fiaba del film sui fratelli Grimm, che viene però  ricordato quasi esclusivamente per la particina da strega di Monica Bellucci, all’adolescenziale “Tideland”, inghiottito dal mercato della distribuzione. Poi arriva “Parnassus”, forse l’opera migliore di questa fase di carriera, funestata però dalla scomparsa dell’attore principale Heath Ledger, e completato tramite l’intervento di altri interpreti amici. Con “The zero theorem”, c’è una nuova incursione nel futuro distopico, che con Brazil e L’esercito delle 12 scimmie ha regalato le maggiori gioie al regista, ma questo nuovo tentativo sembra purtroppo costruito coi materiali di scarto di questi due produzioni, e anch’esso viene accolto tiepidamente. La risposta al quesito su cosa ne sia stato successo dell’ispirazione allucinata, depistante, grottesca e visionaria forse la possiamo trovare nel Don Chisciotte incompiuto, ad una vena creativa distratta “a fare e disfare” Ma ora dopo 25 anni…

TRAMA

Il visionario e affermato regista Toby si trova nella Mancha in Spagna per dirigere un grande film su Don Chisciotte, ma l’ispirazione viene a mancare. Il produttore è col fiato sul collo e si affollano i problemi, e per evadere Toby raggiunge il paesino di Los Suenos dove da giovane diresse il suo primo film da studente sempre su Don Chisciotte. Ma i ricordi felici di quel tempo impattano con la dura realtà attuale, la sua musa Angelica è diventata una escort, e Javier il falegname scelto ad interpretare il cavaliere della Mancha è impazzito, vagando con armatura e cavallo e credendo di essere davvero il cavaliere errante. La situazione peggiora quando sulla scena si affaccia il losco, egocentrico e megalomane finanziatore russo Miiskin.

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Sembra che l’idea di realizzare una versione moderna sul Don Chisciotte di Cervantes fosse già presente al momento della stesura della prima sceneggiatura nel 1999, ma da allora molti aspetti sono cambiati, e molto anche nella carriera del regista. L’idea di partenza è quella di realizzare un meta film sulla realizzazione della pellicola L’uomo che uccise Don Chisciotte; passando attraverso diversi piani narrativi che si muovono su presente e passato, ricordo e sogno, in un gioco voluto a cavallo tra allucinazione e realtà. In verità molti altri elementi si aggiungono, e possente si avverte l’incubo del film non terminato. Un incubo di cui Gilliam sembra si voglia liberare, esorcizzandolo ripercorrendolo e affrontandolo. La vicenda è colma di riferimenti che rimandano a quella produzione. Cominciando dal regista Toby, visionario e affermato, in perenne conflitto con chi gli sta attorno, si arena di fronte al cavaliere della Mancha,  proprio come il suo naturale alterego Gilliam, che ritorna autobiograficamente a trattare l’argomento. Il regista è sempre stato maestro nel mischiare la lucidità del reale col confusionale dell’onirico, ed ecco che il suo racconto personale si carica di quel segnale di stile che l’ha sempre contraddistinto, rendendo unico e riconoscibile in ogni singolo fotogramma del suo girato. C’è in questo caso però un forte animo autodistruttivo. Gilliam guarda al passato con remora e pentimento, un sentimento di repulsione presente sia nelle battuta: “Sono io che ho ucciso il Don Chisciotte” pronunciata proprio da Toby, che suona come un ammissione di colpa, sia nel rimprovero dell’umiliato Javier verso Sancho, colpevole di non averlo avvertito con maggiore impeto al ridicolo a cui andava incontro, riferimento ai dubbi inascoltati dal regista al momento della preparazione del film incompiuto.

Tutti i personaggi coinvolti nel film studentesco di Toby sono andati incontro ad una parabola distruttiva, in particolar modo la sua musa Angelica e quella storica di Gilliam ovvero Jonathan Pryce. Due fonti d’ispirazione agli antipodi. Lei giovane all’inseguimento dei suoi sogni la realtà la costringerà a disilludersi, mentre l’anziano e dimenticato falegname Javier interpretato da Pryce, da quell’esistenza scarna fugge, entrando nel mondo di fantasia di Don Chisciotte, che però lo relega nella follia. Gilliam ritorna al suo cinema, dove il risveglio dal sogno e dalla finzione è amaro, utilizzando il suo tratto stilistico come testimone.  E così le scenografie barocche che tanta fortuna gli hanno regalato, divengono giganteschi e inutili oggetti, d’impaccio alla mobilità sul set, in cui i modellini in scala si tramutano in ridicole caricature nella perdita del gioco prospettico, anch’esso un tempo suo segnale di stilistico inconfondibile. A Toby viene rimproverato di voler rimettere a posto le cose a tutti i costi, ma l’intento di Gilliam è invece quello di portare in scena la consapevolezza di aver ucciso lui stesso il suo Don Chisciotte, e molto duramente per gioco di associazioni, la sua stessa carriera. Accettando da grande artista il suo ruolo, a servizio di qualcosa di più alto della gloria personale; un sacrificio in nome di quell’arte che reclamava un Don Chisciotte che passasse dal suo cinema. Consolato però dalla convinzione che quella che è stata la sua arte mai morirà, esattamente come il cavaliere di Cervantes.

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