4 Novembre: il Cinema e la Grande Guerra

Un secolo esatto ci separa dalla fine del primo conflitto mondiale, che è valso all’Italia la tanto agognata unità nazionale. Una ricorrenza che offre l’occasione per parlare di due film che la Grande Guerra l’hanno raccontata in modi e tempi differenti.

Cento anni esatti dal termine del primo conflitto mondiale. Per la prima volta il globo conobbe una guerra senza confine, e privata di ogni onore, se non quello dell’estremo sacrifico di intere generazioni che hanno combattuto per pochi palmi di terreno, strappati e resi al nemico per anni. L’Italia otterrà la tanto sofferta unità con un tributo costante di vite, che hanno reso il periodo’15-’18 come uno dei più vergognosi della storia dell’uomo. Un elenco interminabile di nomi destinati ad essere dimenticati col passare dei lustri, ma sempre presenti nei documenti e nelle testimonianze sopravvissute ai campi di battaglia. Al cinema il compito di portare avanti la memoria: nei documenti filmati, nella ricostruzione storica, come anche nella finzione. Pellicole incaricate di educare e intrattenere, ma lasciandoci sempre e comunque un monito. Molti a ragione i film che hanno trattato il conflitto, qui riportiamo due pellicole decisamente diverse nei toni, poste agli antipodi a livello temporale, ma utili a creare quel ponte con gli eventi che ora commemoriamo.

E’ infatti del 1917 il film La guerra e il sogno di Momi, diretto da Giovanni Pastrone e da  Segundo De Chomon, quest’ultimo pressochè dimenticato, fu  uno dei primi maghi degli effetti speciali. L’opera nasce nel cuore del conflitto ed è ricordata a livello cinematografico come uno dei primi esempi sia di tecnica in stop motion che d’animazione realizzati in Italia. Il film è un mediometraggio della durata di una quarantina di minuti, facilmente reperibile sulle più note piattaforme video presenti nel web, ed è sostanzialmente diviso in due parti principali. Partendo da quella guerra vissuta da chi è a casa ad attendere il ritorno dei cari al fronte, l’angoscia e le poche notizie cha arrivano dalle lettere inviate. In questo clima il piccolo Momi vive la sua infanzia, i balocchi di una famiglia agiata e il padre lontano in battaglia. Proprio un racconto del padre su un atto eroico compiuto da un giovanissimo e recapitato a casa in una lettera, alimenta la fantasia di Momi, che a differenza di quel suo coetaneo la guerra la conosce solo di rimando. Prende vita così la seconda parte, una guerra animata da marionette, in una surreale e drammatica ricostruzione onirica delle vicende belliche. Il risveglio dal sogno del piccolo, e associabile a quello di chi resta affascinato dalla guerra come atto nobile, si ridestano le coscienze, e nell’ultimo quadro che recita “Il sacro voto di quelli che attendono”, emerge la volontà di dedicare ad essi, più che ai soldati lontani la pellicola. Il conflitto è ancora in corso, la ricostruzione dal fronte lontana dall’essere immagazzinata; lo stato d’animo di chi era là, impossibile ancora da comprendere, ma è sufficiente al film quello di chi è rimasto. Probabilmente Pastrone non avrebbe potuto dirigere una pellicola tanto “leggera” se avesse atteso il racconto diretto dei sopravvissuti, ci penseranno altri, lui ha regalato una fiaba, ingenua al cospetto del dramma, ma utile come testimonianza di storia in corso d’opera. Pastrone noto soprattutto per il kolossal “Cabiria” realizzato con l’apporto di D’Annunzio, abbandonerà a breve il cinema, per dedicarsi alla medicina, decisione impensabile ai giorni nostri. Mentre proprio D’Annunzio dalla guerra e dalla ribalta che Pastrone rifiutò, resto immortalmente sedotto.  

Su altri toni si pone Torneranno i prati di Ermanno Olmi, la grande guerra è ormai storia da un pezzo e gli errori si sono ripetuti. Olmi scomparso recentemente, ha lasciato nel 2014 il suo testamento artistico, traducendo in forma cinematografica il racconto “La paura” scritto nel 1921 da Federico De Roberto. Antimilitarista, struggente e avulso da ogni retorica, la sua è una memoria dedicata a tutti, che parla alle future generazioni, trasformando quell’ermetismo utilizzato da Ungaretti, che il fronte l’ha vissuto, in linguaggio cinematografico. Le trincee dell’altopiano di Asiago, teatro di sanguinose battaglie e ed estenuanti attese, nell’inverno del 1917, interminabile, si trasformano in trappole per uomini, che imprigionano i soldati tra muri di neve e raffiche di armi da fuoco.  Le coperte troppo scarse per reggere il freddo e una trincea assurda, trasformano le figure dei soldati in fantasmi anonimi, che strappano il ricordo del loro nome soltanto nel momento in cui si muove la corrispondenza. La trincea è la ferita che l’uomo infligge alla montagna, una ferita che come preannuncia Olmi si rimarginerà a conflitto terminato, quando la natura si riprenderà i prati, ma che resterà per sempre nell’animo di un territorio da sempre espressione di quiete e contemplazione. Porterà in se i nomi di quelli che non sono tornati, e resterà dentro chi è riuscito a sopravvivere, che vedrà dove sono rinati i prati, sempre e solo la trincea. Il film è breve ma di un intensità spaventosa, come spaventoso è il nemico: invisibile, incolpevole e assolto, avversario e compagno di destino. Invisibile come chi impartisce gli ordini dall’alto, sostituendosi a Dio nel disporre della vita degli individui, bilanciando predestinazione e fatalità. Quella fatalità che accompagna il fischio dei bolidi che volano sopra le teste, in attimi di sospensione mistica e di attesa consapevole, di quel momento in cui la gravità reclamerà il rispetto delle sue leggi, quando il fragore dell’esplosione fornirà  una risposta alle preghiere.

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