Vedi scritto Bohemian Rhapsody e automaticamente leggerai Queen: il brano contenuto nell’album “A night at the Opera” non è solo un esperienza sensoriale unica, ma qualcosa che va oltre, per il valore della sua complessità musicale, e per essere entrata nell’immaginario di una generazione, passando poi per quelle successive senza perdere una goccia della sua linfa. La band inglese non è naturalmente solo questo brano, ma il biopic che più o meno tutti aspettavamo non poteva che effigiarsi di quel titolo iconico.
TRAMA
13 luglio 1985, ultimi preparativi prima del concerto, una telecamera segue un cantante col suo gruppo, si respira aria di grande evento, percorriamo alle sue spalle i metri che separano il backstage dal palco, incrociamo gli artisti che si sono appena esibiti. Le spalle, che ora salgono l’ultima scalinata, sono quelle di Freddie Mercury, loro sono i Queen. La tendina sul palco si apre e davanti a loro si spalanca la folla oceanica di Wembley, questo è il live Aid, e le lancette dell’orologio stanno per tornare indietro di 15 anni. 1970, aeroporto di Heatrow, un giovane addetto ai bagagli di origine parsi è impegnato sul lavoro, il suo nome è Farrokh Bulsara.
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“Sono un performer, do al pubblico quello che vuole”, il regista Bryan Singer sembra aver preso alla lettera le parole di Freddie Mercury scegliendo di trattare il primo film biografico sui Queen andando incontro alle aspettative della gente, a dispetto dei sicuri mugugni dei critici e dei fan più affezionati, pronti a gridare allo scandalo, appena presa visione delle vistose incongruenze storiche nella ricostruzione degli eventi. Licenze poetiche applicate al cinema, allo scopo di rendere fruibile e narrativamente lineare una biografia che in maniera un po’ ruffiana cerca di esaltare il mito, ma non dimenticandosi di scavare nell’intimità, toccando scandali e attriti. L’attenzione è completamente incentrata sulla grandiosità della storia, il lavoro di regia non si perde in sperimentazioni stilistiche, tramutando Singer e il collega Dexter (intervenuto ad ultimare la direzione del film)in ghost writer a servizio di essa, attitudine assai rara ultimamente. La scelta può apparire poco coraggiosa, ma corretta se ci troviamo al cospetto di una biografia capace di camminare da sola, che per la sua grandiosità ha bisogno soltanto di se stessa per essere raccontata. Attraverso le canzoni prima di tutto, immortali pietre miliari nate per esaltare i sensi, esperienze per coinvolgere il pubblico. Una forza comunicativa che diviene simbiosi collettiva tra musicisti e ascoltatori, fino a ribaltarne i ruoli: la gente canta nei concerti dei Queen, e loro scrivono “We will rock you” che gli permette di salire simbolicamente insieme su un enorme palco collettivo. La costruzione di questo e altri brani è parte di quell’aneddotica che maggiormente incuriosisce, utile ad illustrare il piacere dei quattro membri nel realizzare musica della più alta qualità possibile. Ecco che il rock viene trasformato in opera teatrale, e viceversa, sovvertendo quei canoni imposti dai discografici, e imponendo quella volontà artistica in qualche modo rivoluzionaria. Ma una grande rock band non fa parlare soltanto per la sua musica… Mentre vanamente Brian May cerca di convogliare l’attenzione dei media sul disco in uscita, l’attenzione si sposta sui i gusti e gli scandali di Mercury. Il suo è un ritratto dal doppio volto, dove l’anima del grande attore trasforma in frontman di smisurata personalità uno spirito sensibile, che nel privato soffre delle sue paure e fragilità. Spiccando invece il volo una volta in pubblico, in maniera rapida e incontenibile, fino agli eccessi delle droghe e della bisessualità ostentata, in un climax edonistico pericoloso. La malattia rende un dio nuovamente un uomo, che come tutti cammina in mezzo alla gente: per le strade e per le corsie di un ospedale. Accompagnato dal saluto di un fan malato e dallo sfondo musicale di “Who wants to live forever” , prevedibile ma inevitabile mezzo, che ci ricorda del perché si trovi lì, confermandoci amaramente tutti i timori. Il suo tempo su questa terra sta per scadere, e ogni momento ancora concesso è d’assaporare al massimo, fino all’ultimo soffio di vita rimanente. Da essa occorre trarre la forza per passare sopra il dolore, tramite la musica, come cura, come creazione e ricerca di un momento di assoluta perfezione.
I queen come una famiglia dai membri estremamente differenti: dove Mercury acquisisce il ruolo di figliol prodigo, reo confesso di tradimento, in cerca di perdono dopo la sua avventura da solista. Il richiamo a Michael Jackson e all’abbandono della sua band/famiglia dei Jackson 5 non è casuale. Ma la famiglia artefatta dei Queen sembra avere radici più solide di quella biologica dei Jackson, e sebbene ognuno dei membri , ne abbia una per conto suo, le cose tornano a funzionare. Il solo Mercury reclama la mancanza di un nucleo affettivo tutto suo, ma il riavvicinamento alla figura paterna, gli consentirà di riconciliarsi con le sue radici culturali. La massima zorastriana "Buoni pensieri, buone parole, buone azioni", sempre citata come rimprovero dal padre al figlio Farrokh, rimane tacitamente scolpita all’interno di Freddie, che la libererà in occasione del maxi evento benefico del live Aid: culmine dell’esaltazione musicale dei Queen, mutandosi in energia pura, in quel momento di assoluta perfezione, che il pubblico desiderava, e a cui Freddie ambiva.