Ralph non spacca l’internet: il cyberpunk spiegato ai bambini

Il sequel di Ralph Spaccatutto si sposta dai videogame ad internet. Ma la nuova formula funziona solo a metà.

In principio fu Toy Story: il primo cartone animato totalmente digitale, della Pixar, nel 1995 (ormai quasi un quarto di secolo fa).
Ad essere animati, in quel caso, erano i giocattoli, con l'avvio di una fortunata saga e della nuova tendenza dell'animazione, così dirompente (anche per i costi inevitabilmente più bassi di quella disegnata a mano, frame per frame) da divenire attualmente l'animazione tout court. La Disney ha infatti col tempo rinunciato al cartoon tradizionale in favore di quello puramente digitale.

Wreck It Ralph, "Ralph spaccatutto" (2012), aveva seguito il modello di Toy Story applicandolo modernamente al cosmo dei videogame. Lo stile era quello della nostalgia anni '80 (che all'inizio degli anni '10 era relativamente innovativo: per i corsi e ricorsi storici, con gli anni '20 inizierà probabilmente l'amarcord degli anni '90): il videogioco principale era un classico platform, e la contrapposizione tra l'odioso perfettino Fix It Felix e il grossolano Ralph rispecchiava la dinamica di gioco tra Super Mario e Donkey Kong.

Il sequel, come detto, si incentra sulla scoperta di internet da parte dei personaggi vissuti fino allora solo nella sala giochi: un presupposto narrativo interessante, per quanto non nuovo in assoluto. Di fondo, è il tema centrale del cyberpunk: la narrazione dell'incontro tra rete internet e realtà virtuale, rappresentato filmicamente per la prima volta in Tron (1982) e ancora recentissimamente in "Ready Player One" (anche qui, fondendo internet e videogame online, in stile Fortnite).

La parte visiva della rappresentazione di internet è esteticamente riuscita, ricca di trovate visive ed easter egg. Certo, il problema è il campo molto più ampio prescelto: parlando dei videogiochi di una singola, antiquata sala giochi era legittimo selezionare alcuni giochi e non altri; parlando teoricamente di "tutto internet" resta fuori "la vera rete", quella sporca e corrotta che affascinava il cyberpunk, mentre qui ovviamente resta solo la vetrina luccicante dei grandi marchi del dotcom.

Certo, in un film per bambini non si può insistere troppo sul lato dark: ma il gioco, a un occhio adulto, mostra molto più nettamente la corda. Anche sui "nuovi giochi" più adulti che i provincialotti della sala giochi incontrano si crea lo stesso problema: il nuovo gioco che entra nella continuity narrativa è infatti, in modo evidente, un clone di Carmageddon, che però, per ovvie ragioni, non può avere che un millesimo della cattiveria dell'originale (ulteriormente annacquata dal fatto che le sue intelligenze artificiali recitano la parte dei duri per esigenze di copione ma sono in realtà buonissimi e zuccherosi anche loro). 

L'inserto delle principesse Disney in questo cosmo virtuale è un'operazione interessante e ben riuscita in quanto tale, con cui la Disney sdogana nella nuova arena digitale le sue preziose proprietà intellettuali dal 1937 (Biancaneve) in poi. Tuttavia, è un terzo scenario/tema introdotto (assieme a internet in generale e il videogame online) e la trama viene così sempre più a sfarinarsi. E, in tutto, non si è ancora introdotto un cattivo credibile: così, verso il terzo atto del film, si deve imbastire una crisi che non ha un credibile set up (tra l'altro, trasformando il personaggio di Ralph in una figura molto più ingenua e infantilizzata) e crea così un pay off di modesto interesse, per quanto interessante sotto il profilo puramente tecnico dell'animazione digitale, in sé ad altissimi livelli.

Gradevole anche la macro-citazione di King Kong per il gran finale, ma senza il carico emotivo dello scontro finale del film precedente. In generale si coglie una forte infantilizzazione dei temi, in modo simile a quella vista nel recente "The Incredibles 2", altra innegabile occasione sprecata. Una "maledizione dei sequel" paragonabile a quella che attanagliava quasi tutti i film anni '80 (con lodevoli eccezioni come Ritorno al futuro e pochi altri), nonostante invece "Toy Story" avesse saputo tenere alto il livello della scrittura. Più che a livello registico, infatti, il problema è proprio di sceneggiatura: la cosa è curiosa, perché l'autore della medesima, Phil Johnston, è lo stesso del film precedente - un gioiello di pulizia stilistica - e dell'altrettanto valido Zootropolis (2016). La scena più brillante e l'unica con un po' di sana cattiveria è quella post-credits, con una gustosa citazione dei Monty Phyton riletti in chiave videoludica. 

Insomma: se il cartoon digitale aveva portato a una "doppia lettura" del cartone animato, una più ingenua per il pubblico infantile, e una più sottile, metaforica, per il pubblico adulto (genitori accompagnatori o semplici appassionati del medium), adesso si sembra tornare verso il puro e semplice intrattenimento infantile (e in questo, suppongo, questo film privo di unitarietà ma ricchissimo di eyes candy funziona probabilmente benissimo). Quindi niente più riflessioni pirandelliane nei giocattoli autoconsapevoli di Toy Story, o la fantascienza solo apparentemente naif di Wall-E, ma intrattenimento infantile puro e semplice, inseguendo anche, a questo punto, una sempre minore rilevanza della struttura della trama per nuovissime generazioni con - senza loro colpa - bassissima soglia dell'attenzione proprio per l'iperstimolazione tecnologica.

A questo punto, viene il sospetto che questa "fine della trama" porterà gradualmente (non al cinema, però) all'innovazione - relativa - preconizzata da Black Mirror: Bandersnatch: un "cinema a bivi" dove ognuno potenzialmente sceglierà il filone che più gli aggrada. Una trasformazione profonda, ormai già in corso nell'ambito videoludico, e su cui bisognerà tornare a riflettere.

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