La Giornata Onu della Lingua Madre, che si celebra il 21 febbraio dal 1952 in poi, spinge inevitabilmente a una riflessione sulla lingua: specie se ci si trova a insegnarla, come me, in questi tempi in cui – almeno nella percezione – l’italiano elegante è sotto attacco da una sciatteria diffusa, spesso rivendicata con orgoglio, mentre storici baluardi come l’Accademia della Crusca sembrano mostrare un certo cedimento all’uso puro e semplice (salvo opportuni correttivi dopo le immancabili polemiche su facebook). Viene quindi spontanea una domanda: quanto sono profonde le radici della nostra lingua?
Perché l’italiano è per me, indubbiamente, la lingua madre: eppure, se ci penso, credo di far parte della prima generazione del mio albero genealogico ad affermarlo. Mio padre parla perfettamente in italiano, ma pensa in piemontese. Per mio nonno l’italiano credo fosse una lingua straniera ben padroneggiata, per mio bisnonno una lingua straniera conosciuta. Andando indietro di un altro paio di generazioni penso sarebbe divenuta una lingua completamente ignota: del resto, mio bisnonno ha combattuto nella prima guerra mondiale, torniamo ancora indietro e siamo alle guerre d’indipendenza, con cui nasce per i Savoia – che parlavano piemontese e francese – l’esigenza di una lingua nazionale, che troveranno di fatto negli studi linguistici del Manzoni: la sua risciacquatura in “acqua d’Arno” per i suoi Promessi Sposi, ovviamente, e il suo successivo lavoro come presidente della commissione della lingua della neonata nazione. Così, grazie all’invenzione di fatto dell’italiano moderno, Manzoni si è ritagliato un posto immortale nel canone: e ancora oggi, a due secoli dalla sua scrittura, i Promessi Sposi sono la lettura irrinunciabile del biennio delle superiori.
Ma, naturalmente, l’operazione di Manzoni ha senso sulla base di una ricchissima tradizione precedente: “Quando il principe di Metternich disse l'Italia essere una espressione geografica, non aveva capito la cosa; ella era una espressione letteraria”, sosteneva il Carducci (cantore anche della nostra Mondovì). Una tradizione letteraria che spalanca alla giovane nazione la vertigine dei secoli, finalmente, fino alle tre corone trecentesche, di caratura europea: Petrarca, Boccaccio, e soprattutto Dante Alighieri, il vero padre nobile della lingua (cui, giustamente, è tributato lo studio nel triennio liceale).
Si può tornare ancora indietro: la prima attestazione artistica del volgare nella penisola non viene molto ricordata, perché si tratta dell’Iscrizione di San Clemente, verso il 1100, e inizia con “Fili de le pute, traite”. Comprensibile ancora oggi, certamente volgare (in entrambi i sensi) e forse profetico: ma non molto poetico, diciamo. I Placiti Cassinesi del 960 sono la prima attestazione di un volgare in senso assoluto, in una causa che coinvolge i benedettini (in questo, si mostra – se era necessario – il valore seminale della chiesa in Italia); il testo più bello è quello “di transizione”, non più latino, non ancora volgare: l’Indovinello Veronese vergato tra VIII e IX secolo da un anonimo copista.
Se pareba boves, alba pratàlia aràba
et albo versòrio teneba, et negro sèmen seminaba.
Un enigma all’origine dell’enigma della lingua madre, un indovinello che se decifrato dà come risposta la scrittura: sembra quasi una raffinata metafora costruita ad arte, e invece è perfettamente reale. L’anonimo non lo sapeva, ma volente o nolente stava seminando un nero seme nel ventre fecondo dei bianchi prati della madre terra / madre lingua. Quel seme è fiorito per oltre un millennio, da allora: sta ora a noi non farne appassire la pianta.