L’ultima madre

Anna Della Rosa racconta la sua Maria, protagonista dello spettacolo “Accabadora” la sera di giovedì 7 marzo al Baretti

Cos’è che ti rende davvero madre? I geni? La carne, il sangue condivisi con un altro essere umano? O l’amore, l’educazione, una forma interiore, che si contribuisce a plasmare tutti i giorni con l’insegnamento, i consigli, le attenzioni, la propria personalità? Questo è l’interrogativo fondamentale, su cui si fonda tutto l’impianto narrativo di “Accabadora” il romanzo più noto della scrittrice Michela Murgia. Dalle pagine del testo emerge il suggestivo ritratto di una Sardegna ancestrale, con i suoi riti e le sue credenze antiche, una sapienza popolare legata al grande mistero della vita. Proprio di questo è emblema la figura dell’Accabadora, incarnata nel romanzo dalla zia e madre adottiva della protagonista, Maria. L’Accabadora è l’ultima madre, che accudisce i morenti e li accompagna rendendone più dolce il trapasso, accollandosi la responsabilità di gesti difficili da comprendere o da accettare. Questa fifi gura, e il tema più forte davanti a cui il lettore viene posto, che è quello del fine-vita e dell’eutanasia, hanno un po’ monopolizzato il dibattito e la riflessione scaturita dal romanzo. Il monologo, scritto da Carlotta Corradi per la regia di Veronica Cruciani, inverte un po’ la prospettiva del testo, puntando il focus dalla madre adottiva, l’Accabadora, a Maria, la protagonista, interpretata da Anna Della Rosa, attrice giovane ma con una lunga esperienza teatrale alle spalle. “Accabadora” sarà in scena giovedì 7 marzo al teatro “Baretti” di Mondovì, per il cartellone teatrale organizzato dalla Città di Mondovì e dalla Fondazione Piemonte dal Vivo (come sempre, lo spettacolo inizia alle 21). È Anna a raccontarci la sfida dell’interpretazione di un lavoro e di un personaggio come questo. «Affrontare un monologo è sempre una bella sfida – spiega Anna – a me piace pensare che il teatro sia il luogo dove si incontrano tre intelligenze, tre cuori: quello della regia, quello dell’attore e quello dell’autore del testo. A queste tre si aggiunge, poi, l’incontro con la quarta, quella dello spettatore. In un monologo queste tre intelligenze devono avere un sentire comune, il più possibile allineato, perché non ci sono altri appoggi. Non ci sono altri attori. Veronica ha fatto un lavoro fortissimo di regia, è entrata in relazione con me che sono da sola sul palco, a percorrere il testo. Io per affrontare questo monologo mi preparo come un atleta che deve affrontare una corsa, una maratona. Quando un testo è bello è piacevole seguirlo, nelle sue pause, nei suoi silenzi, nei cambi di ritmo… Un testo è sempre un viaggio da affrontare con la propria sensibilità, un monologo lo è ancora di più»

Da dove è partito il progetto di mettere in scena un testo come “Accabadora”

È nato tutto da Veronica Cruciani, che si è innamorata, come tante persone, del romanzo. Ha pensato che potesse essere una storia forte da raccontare, ha chiesto a Carlotta di preparare l’adattamento, di cercare il modo di prendere il succo di questo romanzo per farlo rivivere sulla scena, come un monologo.

Dal punto di vista tecnico che scelta è stata fatta, per rendere sulla scena un romanzo così complesso?

Carlotta ha scelto di rivedere la storia guardandola dal punto di vista di Maria, la figlia adottiva, che io interpreto. È un testo che mescola teatro di narrazione a quello più tradizionale di mimesi, perché si rappresenta, in scena, una sorta di dialogo con la madre adottiva, un’interazione con lei. È uno spettacolo molto basato sulla regia. Questo processo l’ho affrontato passo passo con Veronica, interagendo con lei. È molto particolare la scelta linguistica, il tutto viene reso con una lingua molto poetica, attraverso cui si evoca questa resa dei conti della protagonista con i fantasmi del passato, con la madre adottiva e si evoca una galleria di personaggi e ricordi.

Il tema centrale del monologo, come anche del romanzo, è quello della maternità

Sicuramente, sia la regista che la sceneggiatrice si sono soffermate sulla bellezza della relazione tra una madre adottiva e la figlia adottiva. Essere madre non è solo un fatto di geni, è un fatto di anima. È la stupenda storia di una bambina, che dalla madre naturale era definita come l’ultima della nidiata, mentre la madre adottiva chiama Maria, e dandole un nome le regala una dignità diversa, propria di un essere umano. L’eutanasia è un tema presente, si intreccia con quello della maternità: la madre dà la vita, l’Accabadora, ultima madre, ti assiste nel momento della morte.

Tra i tuoi lavori cinematografici c’è anche “La Grande Bellezza” di Sorrentino, che ricordo hai di quel set?

Un ricordo stupendo, è stato un enorme divertimento e un lavoro di grandissima eccellenza in ogni aspetto. Quel set sprigionava eccellenza da tutti i punti di vista. Paolo Sorrentino è un regista straordinario, una persona di un’attenzione strepitosa, anche nei piccoli dettagli. Io ho girato alcune scene nella festa iniziale, una bolgia di 400 comparse. Lui ascoltava in cuffia i dialoghi con Verdone, mio partner in scena, chiedeva qualche modifica alle parole, al tono, molto attento ad ogni dettaglio. Mi sentivo a mio agio, diretta con sicurezza. Poi lavorare con Verdone è stato molto bello, è una persona simpatica, attenta a mettere al mio servizio la sua esperienza. Era un set pieno di attori provenienti dal mondo del teatro, infatti ci conoscevamo quasi tutti.

Preferisci lavorare a teatro o al cinema?

Ho fatto tanto teatro, e grazie a Dio tutte cose molto belle. Vivo il teatro con grande pienezza, per il cinema ho partecipato a due o tre lavori, ma senza raggiungere mai il grado di intensità che avverto sulle scene teatrali. Il palcoscenico è il mio regno, ma mi piacerebbe esplorare di più il set, visto che ho molta meno esperienza in quel campo.

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