di Marika Mangini
Rileggo il Nome della Rosa e, un po’ come voleva lo stesso Eco, vesto i panni di Adso e, con lo stesso timore reverenziale, seguo a mia volta il maestro Guglielmo addentrandomi con lui nei corridoi del cupo monastero medievale, alla ricerca della causa delle oscure morti che avvolgono il convento di mistero. Un Adso in gonnella, insomma, con la stessa ingenuità e fame di conoscenza del giovane novizio. E come lui, non manco di stupirmi del suo acume fin dall’inizio, quando G. identifica Brunello sulla base dell’osservazione, dell’ intuizione, delle tracce e da una certa una dose di bluff. Da qui comprendo che Guglielmo non procede per deduzioni teoriche, bensì parte dall’osservazione come prima fase di un metodo induttivo che considera gli indizi (i segni, le tracce) come il punto di partenza di un’ analisi che lo porta a collocare gli elementi in un ordine razionale, guidato, a metà strada fra Bacon e Sherlock Holmes, dalla logica e dall’intuizione, senza mai discostarsi dai fatti oggettivi, dalla natura delle cose, procedendo per ipotesi sempre da verificare finché il quadro sarà completo. La sua apertura mentale, che spesso si colora di ironia, ha qualcosa di straordinariamente moderno: a me (volevo dire ad Adso) insegna il libero pensiero, a non lasciarsi ingabbiare dai dogmi, lui che ha rinunciato all’ inquisizione proprio per non costruire un castello di sospetti su una parola. Lui che inforca la forcella per vedere da vicino, ma ha vista acutissima quando guarda lontano, e che si contrappone così a Jorge, che, cieco, non vede né con gli occhi né con la mente, Jorge per cui ridere è segno di stoltezza e per il quale la conoscenza deve rimanere inaccessibile perché labirintica causa d’errore. E Guglielmo, invece, accoglie il riso e la conoscenza come nuove strade da percorrere con mente illuminata; lui è quello a cui piace ascoltare e poi pensarci su e, anche se gli dicono “pensi troppo”, continua a usare la sua ragione, perché “la nostra ragione è stata creata da Dio e ciò che piace alla nostra ragione non può non piacere alla ragione divina”; lui che però, quando i segni si fanno troppo oscuri da interpretare, mi dà ogni tanto un colpetto sulla nuca (cioè: un colpetto sulla nuca di Adso) per sdrammatizzare quei momenti di turbamento che assalgono la natura umana ogni volta che un discorso o un episodio aprono porte piene di interrogativi. Ed è lui, ancora una volta, che insegna ad accettare i propri errori, ristabilendo l’ equilibrio tra il rigore e l’ indulgenza. Quando, ancora inorridito dal proprio peccato, Adso chiama “meretrice” la donna che probabilmente si è concessa a qualche monaco lussurioso per averne in cambio qualcosa da mangiare, Guglielmo risponde: “Una contadina povera, Adso, magari coi fratellini da nutrire". Non giudica a priori Guglielmo, ma osserva la natura degli uomini con sguardo mite, e, pur non giustificando il male, prova a comprendere l’ essere umano, anziché condannarlo. Figlio di un Medioevo in cui non si riconosce più, Guglielmo ha la testa oltre, proiettata verso l’ uomo del Rinascimento. Ma vedo in lui quelle che vorrei fossero radici anche degli uomini del nostro tempo, uno che, sentendosi dire “non abbiamo più la saggezza degli antichi, è finita l’ epoca dei giganti”, risponderebbe, ancora oggi: “Siamo nani che stanno sulle spalle di quei giganti, e nella nostra pochezza riusciamo talora a vedere più lontano di loro sull’orizzonte”.