HipHopNation/L’arte di strada

Il Writing, dalla ribellione all’affermazione nel mondo dell’arte. Una riflessione sul lato più controverso della cultura Hip Hop con l'artista e storica dell'arte Daniela Olivieri

Dei quattro pilastri del movimento hip hop il writing è sicuramente quello più spinoso da affrontare. Sono spesso gli stessi attori della scena hip hop a guardare con perplessità ad alcune manifestazioni di questa branca della creatività, che tuttavia ha un significato importante, sia dal punto di vista storico che poi da quello più strettamente artistico. Nella storia dell’arte il graffitismo e la street art si sono pienamente affermati come uno dei movimenti di espressione artistica più significativi del ‘900, con l’imporsi di due artisti fondamentali come Basquiat e Keith Haring, ma anche, più recentemente, Banksy, che ha in questo retroterra le sue radici, che rielabora in chiave moderna. I graffi ti esistono da secoli: l’idea di comunicare qualcosa scrivendolo sui muri, anche clandestinamente, è antichissima (basti pensare alle scritte ritrovate a Pompei). Nel Novecento, tuttavia, nel contesto del degrado metropolitano, l’idea di prendere in mano una bomboletta di colore e provare a portare bellezza, espressione artistica in un contesto sociale e urbano soffocante è stato un qualcosa di significativo e rivoluzionario, che è diventato ben presto una delle forme di espressione fondamentali della cultura hip hop, che aveva in questo concetto, e nel sincretismo culturale, una delle sue bandiere. La professoressa e artista Daniela Olivieri di Cengio ci ha aiutato ad approfondire questo aspetto della storia dell’arte. «L’arte di strada nasce prima dell’hip hop, nasce alla fine degli anni ’60. Un linguaggio che ha in comune con il lato musicale la volontà di comunicare liberamente. L’arte di strada, nella sua forma più primitiva, era veramente molto semplice: scritte, promosse da gruppi o singoli che volevano comunicare istanze politiche, o erano gang di strada che marcavano il territorio con le loro tag». Dopo inizi difficili, la street art viene progressivamente accettata dal mondo dell’arte. «Inizialmente non era apprezzata dalla critica. Jean Michel Basquiat e Keith Haring furono i primi a raggiungere la piena affermazione, la cosa che li rendeva rivoluzionari era il fatto di lavorare per strada, per tutti, con linguaggi semplici. Inizialmente l’intenzione di abbellire il tessuto urbano non era una componente fondamentale. Lo sta diventando sempre di più in questi anni, tant’è che nelle grandi città sempre più spesso si promuove l’arte di strada per abbellire le periferie urbane e i quartieri degradati. Uno degli ultimi casi in questo senso è il caso di Genova, dove hanno lavorato anche due artisti che erano venuti pure a Cengio». C’è una componente di ribellione e rivolta intrinseca al movimento del writing, che nasce anche per rompere le regole e sovvertire un sistema soffocante. Naturalmente queste declinazioni “pulite” fanno un po’ scadere questo aspetto del writing nell’hip hop, tant’è che spesso la scena non vede di buon occhio chi si mette al servizio delle istituzioni in questo senso. È solo una delle contraddizioni che stanno venendo alla luce tra i graffi tari negli ultimi anni. «Nel momento in cui il writing viene accettato, istituzionalizzato, riconosciuto come arte si perde un po’ la sua genuinità e la sua intenzione originaria – spiega ancora la professoressa Olivieri –. All’inizio non era arte pensata per una lunga conservazione: doveva essere effi mera, si accettava il fatto che si sarebbe deteriorata, magari anche sparita. È interessante notare come negli ultimi anni, nel momento in cui è stata riconosciuta come arte contemporanea e ha acquisito valore anche di mercato, tutte queste componenti si sono perse e quest’arte ne è necessariamente uscita un po’ snaturata».

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