Tarantino: Il cinema e il suo doppio.

Tarantino torna al cinema per il suo nono film, "C'era una volta a... Hollywood" e ancora una volta spiazza critica e spettatori.

Tarantino è il massimo esponente del postmoderno cinematografico, e in quanto tale, ovviamente, fa un larghissimo uso del metacinema. Ma questa sua nona opera cinematografica va oltre, fin dal titolo, che è metacinema carpiato: doppio omaggio dichiarato a Sergio Leone. Modificato, tra l'altro, con riferimento a Hollywood.

"C'era una volta il West", tra l'altro, è del 1968: un anno prima dell'ambientazione del film, che è del 1969. La scena iniziale del film sottolinea questo ragionamento sul doppio, a vari livelli: Rick Dalton e Cliff Booth, attore e stuntman, appaiono davanti a un presentatore tv che ironizza parlando allo spettatore: "non stupitevi se state vedendo doppio".

Il doppio, naturalmente, non è solo quello che si istituisce tra attore e controfigura. Lo stesso attore ha già il suo conflitto internamente, persona reale e personaggio sullo schermo: e in Dalton diviene evidente nel suo sdoppiarsi in camerino, litigando furiosamente con sé stesso.

Il doppio è anche quello tra finzione e storia reale: le vicende di Rick Dalton si mescolano con quelle di Sharon Tate e Roman Polanski. E qui il gioco di Tarantino si fa più radicale: nulla, infatti, viene detto allo spettatore della tragica vicenda storica della Tate. Charles Manson appare all'inizio del film, per un macabro sopralluogo, ma non viene nominato, così come la sua Family.

La suspense alla Hitchcock che regge tutta l'opera è insomma possibile solo se conosco il terribile massacro compiuto dalla setta di Manson. Per molti spettatori il film rimane quindi poco comprensibile. Tarantino, all'apice della carriera, si permette di parlare solo a un ristretto nucleo di happy few, i secchioni cinefili come lui, tagliando sadicamente fuori il grosso pubblico (magari colto, ma non di cinema e cultura pop).

La tensione, poi, è specificamente tarantiniana. Infatti, all'inizio del film Dalton cita il finale di Bastardi Senza Gloria. Lo spettatore ideale è preso da un dubbio: "oops, he did it again"? Non sveleremo questo aspetto, ma è evidente che ci deve rimanere, fino all'ultimo, il dubbio di come si modificherà la storia con l'inserimento del nuovo personaggio di Dalton (e, se non siamo coltissimi di cinema, potremmo restare col dubbio, essendo perfettamente credibile: questo attore minore è davvero un personaggio immaginario?). Il doppio è quindi la dimensione parallela che si viene a creare con la presenza di Dalton e Cliff. Qualcosa si modificherà, lo sentiamo, ma cosa? In che modo?

Il doppio ha anche un altro livello, che ci riguarda da vicino: il rapporto di Hollywood (e gli USA, e Tarantino) con gli Spaghetti Western. Dalton (tra l'altro: non è un caso che si riprenda il nome dei "cattivi" di Lucky Luke, fumetto francese. Rick Dalton, nella sua decadenza, è schiacciato su ruoli di cattivo) disprezza il cinema italiano, ma esso viene ormai imitato dal telefilm western americano, come in Lancer, dove si trova a recitare (telefilm reale), a differenza del suo pulitissimo "Bounty Law" degli anni '50.

Naturalmente, lo spaghetti western di Sergio Leone e Corbucci (autore di Django, 1966, ripreso da Tarantino e da lui ampliato in Hateful Eight) è a sua volta inevitabilmente derivativo dagli USA, nel continuare di questo gioco di specchi. Tarantino cita anche Margheriti, attribuendogli un film immaginario con Dalton: non spaghetti-western, ma poliziottesco.

Una continuità tra i due generi che assume un significato rivelatore in Tarantino: nel suo film metacinematografico (al cubo, potremmo dire) dichiara apertamente la continuità tra il "suo" recente West e le sue precedenti "crime stories" (Iene, Pulp Fiction, Kill Bill, Jackie Brown - quest'ultima citata apertamente nella scena dell'aeroporto). Il tema comune, e anche in questo il film è una esplicitazione, è la violenza nella società moderna. Non tanto il culto della violenza in sé, ma il confine formale, labilissimo tra violenza illegale e violenza legale.

Il tema dei cacciatori di taglie nel West (Django e Hateful Eight, ma anche, qui, il metacinema di Bounty Law) è la spia più evidente: una patente di Bounty Killer trasforma un assassino in un giustiziere legale. Il terribile nazista Hans Landa si barrica dietro la stessa difesa di mero, cordiale, efficientissimo "esecutore degli ordini": nel film più simile per struttura a questo, Bastardi senza gloria, finirà come il Charles Manson del mondo reale. Con una svastica tatuata in testa. Ma il tema è più ampio: in Deathproof (non a caso, film su uno stuntman, nella parte però del cattivo) un omicida compie dei delitti in modo impeccabile e indimostrabile, sfruttando le pieghe della legge.

Lo stesso fa Cliff in questo film: forse. Infatti, con il suo ineffabile sadismo, Tarantino lascia aperto l'episodio rivelatore sul vero protagonista della storia (è qui lui il vero "attore", colui che agisce, anche se poi alla fine è il suo doppio Dalton che si prende come sempre il merito, facendo il cretino col lanciafiamme).

La moglie è "caduta accidentalmente in acqua" oppure no? Un reato difficilmente punibile (in verità, IL reato difficilmente punibile. Gli "incidenti in mare" sono i casi aperti meno risolvibili, per assenza di testimoni e cadaveri) ma che è qui determinante per darci la verità sul personaggio. Cliff è un simpatico spaccone sfortunato o è davvero un pazzo omicida? Tarantino volutamente non ce lo dice, generando un altro doppio (non è forse casuale che si apre un dilemma simile a quello creato da Lucas, in Star Wars, con il suo "Han Solo shot first" prima affermato e poi negato cinemicamente, che cambia il senso di Star Wars per il personaggio centrale).

Similmente, ma con altra tecnica (non il resoconto troncato, ma il ricordo inaffidabile) ci viene mostrato un improbabile scontro di Cliff con Bruce Lee, ad armi pari. Una nuova, irrisolvibile, doppiezza: Cliff è davvero un combattente eccezionale, o è il ricordo trasognato di un fanfarone? Nel finale, quando si potrebbe sciogliere il dubbio, Tarantino spariglia nuovamente le carte usando un terzo espediente: le sostanze psicotrope (elemento inevitabile parlando di sixties, di Hollywood e di Manson) che rendono in ogni caso Cliff "fuori dal suo umore" e quindi fortemente svantaggiato nel combattimento (che lui non crede reale).

Insomma, un intricato gioco di specchi, con cui Tarantino afferma l'indecifrabilità del gioco del cinema, specchio deformante, teatro delle ombre della caverna platonica che rifiuta programmaticamente di fornirci risposte anche quando ci illude di darle. Resta un Tarantino ormai nell'Olimpo del cinema, che gioca nella sua pura, elevatissima autoreferenzialità, e scrive un film pop come si potrebbe comporre un capitolo dell'Inferno dantesco, strettamente intersecato agli altri in un affresco inquietante della violenza umana; terribile anche quando è un'ombra sullo sfondo, non solo splatter quasi liberatorio.

 

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