Il 29 settembre si è conclusa un’avventura durata una vita. Dopo anni di polemiche e liti giudiziarie, le canzoni del periodo d’oro di Lucio Battisti, scritte a quattro mani con Mogol, sono sbarcate sulle piattaforme online (Spotify, Apple Music).
La causa dell’esilio del cantautore dal web sta nell’atteggiamento ristrettivo degli eredi, la vedova Grazia Letizia Veronese (in arte Velezia) e il figlio Luca. Com'è noto, i due hanno sempre ostacolato la diffusione del materiale audio del padre e marito nell’etere dei mercati digitali. Il motivo? Mantenere una forte identità “analogica”. I proventi della sua musica – sostengono i familiari – possono derivare soltanto dalla diffusione via radio e televisione e dalla vendita dei dischi (CD e vinili). Pure gli eventi, i festival e le commemorazioni in suo onore sono vietati. Non parliamo poi delle pubblicità e delle colonne sonore. Lo sa bene il compositore Zach Cowie, che ha curato la colonna sonora della serie Netflix Master of None. In un’intervista alla BBC di due anni fa ha riferito di aver ottenuto i diritti per inserire “Amarsi un po’” in via eccezionale, grazie all’insistenza tenace dei produttori. L’atteggiamento della moglie e del figlio di Lucio ha diviso giornalisti e l’opinione pubblica. Da una parte, i più - fra tutti Gino Castaldo, che ha scritto una lettera aperta a Velezia – hanno sostenuto che l’assenza di Battisti dai nuovi canali di diffusione musicale si è fatta sentire, ed è andata a scapito del pubblico più giovane, poco avvezzo a “consumare” musica offline (CD, vinili, musicassette). Dall’altra, alcuni hanno riconosciuto che lo streaming non è l’unico mezzo esistente per conoscere la musica di Battisti. Chi vuole esplorare la sua musica può sempre alzare i tacchi e comprare un paio di CD, o - alla peggio - ascoltarsela da YouTube.
Eppure, come dicevo, la diffusione della produzione musicale di Lucio sulle piattaforme di streaming ha rotto l’incantesimo (o la maledizione?) del suo ostracismo. Non voglio ripercorrere le vicende che hanno portato a questa situazione. Ci hanno già pensato parecchi giornali nei giorni scorsi. In questo senso, l’analisi migliore quanto a precisione e rigore, benché risalente a un anno fa, resta quella della squadra di Dataroom di Milena Gabanelli.
La rinascita digitale di Battisti, invece, mi porta a fare alcune riflessioni a caldo sui nuovi sistemi di condivisione della musica in ambito digitale. Come si poteva immaginare, gli oppositori di Velezia hanno presto cantato vittoria per la liberazione del Canto Libero di Battisti. Riccardo Luna esulta così sulla Repubblica del 30 settembre: “Il fatto che l’opera di Lucio Battisti sia rimasta prigioniera del vecchio mondo analogico fino ad oggi consente infatti di fare un interessante esperimento culturale. Perché Battisti per chi ha meno di 20 anni non esiste. Non lo hanno mai ascoltato. […] In fondo è come se Battisti musicalmente fosse nato ieri. Con il caricamento dei suoi album più belli sulle piattaforme digitali”.
Ora, affermare che Battisti non esista per gli under 20 è un’esagerazione. Per quanto mi riguarda, ho scoperto il grande Lucio in totale autonomia, quando avevo 19 anni (circa sette anni fa). E nessuna piattaforma, ai tempi, ha portato i suoi lavori alle mie orecchie. L’ho ascoltato prima su YouTube, poi ho iniziato a comprarne i CD (usati) e i vinili, e dai CD ho trasferito le sue canzoni sui miei dispositivi. Oggi, sicuramente più di sette anni fa, questa modalità di ascolto appare anacronistica. Ma la riflessione di Luna rivela un dato di fatto incontrovertibile. Oggi un artista, per esistere, deve passare attraverso le piattaforme streaming, cioè intermediari che controllano l’accesso e la fruizione delle canzoni. Ed è questa inevitabilità (percepita da molti come un trionfo) a farmi pensare che è inutile opporsi in toto a questo nuovo sistema. Grazie a Spotify o Apple Music, un artista come Battisti può godere di ampia visibilità, soprattutto fra i più giovani. I suoi album digitali saranno più ordinati e valorizzati di vinili pieni di polvere.
Eppure non va tutto bene. Le piattaforme riescono a influenzare il consumo della musica grazie a potenti algoritmi, cui gli utenti danno in pasto ogni giorno quantità immense di dati personali. Classifiche, raccolte di brani virali, tendenze del momento sono solo alcuni esempi dei servizi data-driven offerti agli ascoltatori 2.0. Stando a un recente studio di HyojungSun, esiste una correlazione inversa tra la crescita dei contenuti disponibili e la capacità di attenzione del pubblico. In pratica, sebbene il catalogo musicale delle piattaforme si arricchisca in continuazione, si è più spinti ad ascoltare artisti simili ad altri già conosciuti. O quelli che pagano per inserire gli annunci fra un brano e l’altro - le inserzioni promozionali più intollerabili, per intenderci.
La tendenza dei nuovi “signori della musica” a determinare il gusto degli utenti sta portando a quello che Sun chiama la "sorveglianza del mercato musicale". Come fa notare Sun, “la chiave per la costruzione di un’economia musicale sostenibile è in definitiva legata alla creazione di un ambiente in cui diversi generi di musica possano prosperare”. Un ambiente creativo e stimolante. Un po’ come i negozi di dischi che ancora resistono in alcune città.
Mi chiedo allora quanto possa essere libero il canto di Battisti sulle piattaforme, dove siamo costantemente presi di mira da suggerimenti e consigli (nudge) sulla musica da mettere a una festa, per concentrarsi a studiare, addormentarsi o fare sesso. "Nemmeno dentro al cesso ho un mio momento", direbbe Guccini. Gaber risponderebbe che si tratta di una nuova “libertà obbligatoria”. Possiamo ancora dirci liberi? Non saprei. Ma l’ultima parola spetta a Thom Yorke. Quando il Times gli ha chiesto se apprezza gli algoritmi delle piattaforme di streaming, ha risposto: “No. 'Se ti piace questo, ti piacerà quest’altra cosa…' e poi ti suggeriscono i Muse!”.