Alfabeto di sbadanza/O come Orsacchiotto

A Natale siamo tutti più teneroni. Un racconto tenero come un peluche dal nostro Nicola Duberti, alle prese con la vita di Sbadanza e con le meraviglie della linguistica

Tenero, vero? Chissà perché poi l’orso suscita tutta questa tenerezza. Declinato come orsacchiotto, ovviamente; o al massimo orsetto, quello che in inglese si chiama teddy bear: un essere peloso pensato apposta per i bambini piccoli ma capace di esercitare il suo fascino anche sulle anziane signore immobilizzate nel letto ortopedico o nella sedia a rotelle.
Forse la ragione di questo successo sta nel fatto che il termine orso deriva da una delle radici più antiche e diffuse dell’indoeuropeo: la radice *rkyo che è all’origine dei nomi con cui il nostro caro plantigrado viene indicato in greco (arktos), in sanscrito (ŗkşa), in lituano (lokȳs), mentre nelle lingue slave – per esorcizzarne la terribile potenza – il termine originario è stato sostituito da un composto che significa “mangiatore di miele” (russo med’ved, slovacco medved’).
La presenza di questa radice *rkyo nell’indoeuropeo è stata usata per rintracciare nelle steppe del nord Europa, dove l’orso era ben presente, la patria originaria di quel popolo – gli Indoeuropei, appunto – che probabilmente non sono mai davvero esistiti nella realtà più di quanto esista in natura l’orsacchiotto che vedete nella prima foto.
È solo un giocattolo, lui – come la teoria dell’indoeuropeo. Un giocattolo che dà sicurezza e calore ai bambini – e alle bambine di più di ottant’anni. Morbido, sorridente, tenero – e bianco. Ma se non fosse bianco sarebbe un problema?

Assolutamente no! Lo testimonia la seconda foto dove, come si può osservare, il parco orsacchiotti di mia mamma comprende anche un’orsetta rosa con un naso anomalo a cuore – che è forse la sua preferita, insieme al vicino goloso panda che è evidentemente nero (sia pure con la faccia bianca) ed è notoriamente cinese. Il cane rugoso alle loro spalle è altrettanto indifferente al colore degli orsi.


La foto 3 è un’ulteriore testimonianza dell’universalità che caratterizza l’amore di mia mamma per gli orsacchiotti. In primo piano infatti c’è un orso rosso e giallo (romanista? catalano? siciliano?) con un vistoso ombelico in rilievo (quello che in inglese si definisce un outie navel) particolarmente attratto da un’elefantessa obesa che lo sta accogliendo a braccia aperte.
Un’elefantessa? – si chiederanno i puristi dell’orsacchiottismo. Come può un’elefantessa rientrare nella categoria degli orsacchiotti? Non è nemmeno un peluche! È un’elefantessa glabra, rosa, fragile, cosa c’entra con gli orsi?
Ingenui! Nella zoologia orsacchiottesca c’è posto per tutti, ogni animale può diventare orsacchiotto ad honorem ed essere arruolato: anche un topo (foto 4), nonostante il suo evidente stato di alterazione alcoolica e l’ambiguo papillon multicolore con i colori forse della pace o forse della bandiera gay.


Pensate che trasformare un topo in un orso sia troppo? Ingenui! Vuol dire che avete dimenticato come anche il Maestro Guccini già a suo tempo in Van Loon abbia detto di aver visto «che anche un topo sa ruggire». E d’accordo, gli orsi non ruggiscono ma insomma il concetto è quello.
Non siete ancora convinti? Un’occhiatina alla foto 5, prego!

Qui il concetto di orsacchiotto si applica non solo all’orsetta sullo sfondo - come è logico – ma anche ai due animali in primo piano, niente meno che un’oca e un drago, entrambi evidentemente imparentati come dimostra il ciuffo sulla testa che caratterizza tanto lei quanto lui. Se tra l’oca e il drago ci sia un legame più forte dell’amicizia, non sono riuscito a capirlo.
E sì che li vedo praticamente ogni giorno. Gli orsacchiotti sono parte integrante della sbadanza. Toccarli, spostarli, abbracciarli, passarli a mia mamma perché si addormenti con in braccio uno di loro. Che a volte, poi, con un orsetto in braccio mi addormento anche io.
E comincio a sognare la migrazione degli Indoeuropei.

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