Leandro e il suo primo album: “il miglior apprendistato per un giovane cantautore? Sbatterci la testa”

Il giovane cantautore monregalese racconta la realizzazione del suo primo album, "Fossimo già grandi", uscito lo scorso 29 novembre

Leandro e io ci diamo appuntamento in un bar di Mondovì per un caffè. L’incontro è fissato per le dieci e trenta. Ovviamente mi rallentano i soliti quindici minuti di ritardo, che (purtroppo o per fortuna per lui) non pregiudicano l’intervista. È un sabato di sole – il sole dicembrino, quello fastidioso, che penetra gli occhi provocando gli stessi effetti del collirio. A un quarto alle undici riesco a recuperare l’intervistato a casa sua. Per fortuna non dobbiamo fare nessun Carpool Karaoke alla James Corden, penso io: ne verrebbe fuori un disastro, perché non ho studiato a memoria i testi di “Fossimo già grandi”. Meglio guidare velocemente fino al bar e iniziare l’intervista.

Fossimo già grandi” è il primo album di Leandro, uscito lo scorso 29 novembre per Bunya Records. L’album si rifà chiaramente al cantautorato italiano più e meno recente, però il soundha un respiro decisamente più “internazionale” – espressione paracula per dire che non suona come le opere di certi menestrelli de noantri.

Parliamo della nascita del tuo primo album, “Fossimo già grandi”. Quanto ci hai lavorato?

Ci ho lavorato parecchio, praticamente tutto quest’anno. Nel 2018 io e Paolo (Bertazzoli, che ha scritto arrangiato tutti i brani dell’album insieme a Leandro, n.d.r.) abbiamo registrato “Tempo da omicidi” (singolo del 2018 non incluso nell’album, n.d.r.) e altri due pezzi, che però non sono confluiti nell’album. I brani che trovi sul disco sono stati registrati in diverse session nel 2019 presso lo studio Indigo di Palermo.

Quindi hai composto e registrato i pezzi in vari momenti dell’anno.

Sì, abbiamo registrato le canzoni a gruppi di due-tre, man mano che erano pronte, concludendo il tutto lo scorso luglio. È stata la scelta più giusta: far uscire un EP, a ben vedere, avrebbe voluto dire perdere un anno intero.

Passiamo subito alle canzoni dell’album. Hai fratelli o sorelle?

Una sorella.

Allora perché hai scritto “Tuo fratello”?

È una cosa particolare. Il messaggio di quel pezzo è universale, ma di solito parto da cose che ho vissuto personalmente. Credo sia l’unico caso in cui parlo di qualcosa che ho sentito e visto dall’esterno. Sono partito da una situazione che ha coinvolto due fratelli: uno si rende conto che l’altro sta mandando a rotoli la sua vita e gli dà una mano per tirarsi fuori da questa situazione, invece di accusarlo o biasimarlo. Credo sia il tipo di rapporto che si instaura fra qualsiasi fratello o sorella. È nato tutto da quella circostanza particolare, poi “me la sono viaggiata” e ho creato qualcosa di mio.

Torniamo per un attimo all’album nella sua interezza. Mi hanno colpito due cose. Da un lato, mi sembra un lavoro molto omogeneo, in quanto ci ho ravvisato un certo tono malinconico che fa da filo conduttore fra le varie sue parti. Dall’altro, ho notato che quasi tutti i pezzi si riferiscono a un destinatario, cui ti indirizzi col “tu” (“Tuo fratello”, “Saprai farti valere”), come se stessi scrivendo una lettera. È così o hai pensato a qualcos’altro?

A me piace molto scrivere in seconda persona, perché è un modo di vedersi da fuori. “Saprai farti valere”, per esempio, è stata scritta principalmente per la mia ragazza quando ha avuto un momento di difficoltà in cui sembrava non le funzionasse nulla. L’ho pensata come una sorta di sprono nei suoi confronti. Poi si è rivelata uno stimolo anche nei miei, perché ho iniziato a fare una cosa che mi ha preso totalmente alla sprovvista, senza esperienze musicali alle spalle. Tornando alla tua domanda, credo che scrivere in seconda persona sia molto più diretto, perché riesci a far emergere un messaggio come se il tuo interlocutore lo stesse vivendo davvero. È una questione di immediatezza. Effettivamente in quasi tutti i miei pezzi si può ritrovare questa cosa. Forse l’unica eccezione è “Emancipazione”.

Ecco, parliamo di questo brano. “Emancipazione” è un termine molto politico. C’è una componente politica, quasi a voler indicare una condizione comune a tutti i giovani, oppure c’è dell’altro?

Diciamo che ha più interpretazioni. Sicuramente “emancipazione” è una parola forte, non comune, e questo era voluto. In questo caso, quello che voglio trasmettere è che ognuno mira ai propri traguardi che, una volta raggiunti, non lo appagano mai fino in fondo. L’ambizione consente poi di fare il passo in più: ogni volta che raggiungi un traguardo, vuoi sempre fare meglio, uno stepulteriore. Ti rimetti in discussione, esci dalla zona di comfortche ti sei creato un attimo prima. La scrittura dei pezzi ha seguito proprio questa evoluzione: avevo un sacco di pezzi introspettivi (come “La casa sopra un albero”), ma erano davvero troppi e non potevano finire tutti insieme nell’album. Per questo mi sono messo in gioco per scrivere qualcosa di più ritmato, una novità per me. Questo meccanismo funziona nella musica, ma in qualsiasi altro campo: se non ambisci a nulla di nuovo, resti immobile e non vai da nessuna parte.

La copertina dell'album, realizzata da Matteo Cozzo

Il titolo dell’album è “Fossimo già grandi”. Mi suona come un macigno: da una parte mi sembra un auspicio (“magari fossimo già grandi”), dall’altra una frase che esprime l’irrealtà di una situazione (cioè l’essere autonomi, soprattutto economicamente) che ci riguarderà solo fra molto tempo. Quale delle due?

In realtà il significato del titolo è ancora più semplice. L’ho inteso in questo senso: “se fossimo già grandi, se di punto in bianco ci catapultassimo fra vent’anni, come saremmo? Come sarebbe il nostro rapporto? Avrei preso una strada totalmente diversa? Svolgerei un’altra professione?”. È quasi come se stessi dicendo: sto seminando, sto dando tutto me stesso per raggiungere obiettivi concreti, ma solo tra un po’ di tempo potrò vedere cosa è rimasto dietro. Pure in “Emancipazione” accenno a questo tema, quando dico di voler “riscrivere la storia partendo dal finale”. È come proiettarsi nel futuro, tirare indietro il rullino e vedere cosa si è conquistato.

Nel 1979 Lucio Dalla, in un’intervista a Serena Dandini in cui raccontava la genesi della sua famosissima “L’anno che verrà”, disse: “tante volte penso di dover cambiar lavoro, perché evidentemente c’è, sempre e purtroppo, nonostante tutto, un muro fra me e altri che ascoltano le mie canzoni.[…] Cerco sempre di lasciare liberissima l’utilizzazione delle canzoni: le canzoni sono oggetti[…] ed è bella l’utilizzazione che ne fa la gente”. Secondo te, le canzoni sono “di tutti” e, di conseguenza, non se ne possono limitare le diverse interpretazioni?

A mio parere è così. La musica è diretta agli ascoltatori. Fare musica per se stessi è bello perché ti soddisfa in un qualche modo. Nel momento in cui però la canzone esce dalla tua cameretta e tutti se la possono ascoltare, è giusto che ognuno dia la sua interpretazione, che può essere diversa dalla mia perché ciascuno ha il suo vissuto. Per esempio, moltissimi mi hanno scritto di essersi ritrovati nel testo di “Saprai farti valere”; altri l’hanno inteso come sprono che ho scritto per me. Questa cosa non mi ha dato assolutamente fastidio. Sono partito da un messaggio che volevo trasmettere, e poi ognuno l’ha interpretato a suo modo, anzi: questo è appunto il bello di poter dire la propria sulla musica, che è una forma d’arte universale.

“La casa sopra un albero” di cui parli è un luogo reale oppure è un posto ideale?

È una metafora. La casa sopra un albero è quel posto che ti fa star bene quando sei solo. La identifico nella musica. Essendo stata una cosa che mi ha travolto e mi ha portato via tantissimo tempo, molte persone care, come i miei genitori o la mia ragazza, hanno fatto fatica ad accettare il fatto che ho rallentato con l’università, ho iniziato a fare altre cose e mi sono dedicato con così tanta costanza a qualcosa che non si aspettavano. La casa sopra un albero è un po’ il rifugio dove puoi staccare da tutto ciò che senti e percepisci dall’esterno. Come dico nella canzone, “fare le valigie per non saper dove andare” è proprio il tentativo di fare una cosa diversa, che mi piace. Non lo intendo però come un “buttarsi nel vuoto”, perché solitamente ragiono tantissimo prima di fare una cosa, magari non ci dormo le notti. Semplicemente non so ancora se questa sarà la mia vita.

Questo si collega alle parole che usi in “È meglio”: “E volere cambiare mestiere | indagare per ore e ore | comprare un paio di scarpe nuove | e consumarne le suole”.

Esatto. “È meglio” è una delle prime che ho scritto. In quella fase mi sono reso conto di voler provare a tutti i costi a intraprendere questa strada, ma sempre tenendo i piedi per terra. In altre parole, non potevo dire ai miei di mollare tutto e fare solo musica nella vita. È l’età che me lo impone: devo tenermi aperte possibilità diverse, perché non ho la certezza matematica di poter vivere di questo.

Parliamo di “Solo me stesso”, che chiude l’album. Ti rivolgi di nuovo alla tua fidanzata in questo pezzo?

No, a mia madre. Io e mia madre ci vogliamo un mondo di bene, ma non ce lo dimostriamo mai. Ho scelto di mettere questa canzone alla fine dell’album perché è pesante, ha un messaggio molto esplicito. Le rivolgo espressioni molto forti, quasi a volerle dimostrare che sono in grado davvero fare qualcosa che mi piace, ma lo faccio seguendo canoni diversi da quelli che poteva immaginare.

Veniamo alle ultime domande, poi ti lascio andare. Che ruolo ha oggi il cantautore nella cultura popolare? Ha una funzione sociale di cui deve essere consapevole quando scrive e canta, oppure risponde solo alle sue esigenze personali?

Per me il messaggio è importante. Bisogna sempre comunicare qualcosa in cui si crede davvero. Io parto sempre da esperienze personali, però mi piacciono anche autori che raccontano storie quotidiane con molta più leggerezza. Apprezzo molto di più una canzone spontanea con un messaggio sfocato a una canzone forzata con un messaggio importante. C’è anche da dire che esistono forme diverse di cantautorato, che si rifanno a modi differenti di veicolare messaggi e significati. Per esempio, ho amato “Una somma di piccole cose” di Niccolò Fabi, che è così spontaneo che suona come un punto di arrivo.

Hemingway ha detto chel’apprendistato migliore per uno scrittore è l’aver vissuto un’infanzia infelice. Secondo te qual è l’apprendistato migliore per un cantautore?

Non sono d’accordo con Hemingway. Personalmente non ho avuto un’infanzia triste. Per me è stata decisiva la voglia di rivalsa, l’ambizione. L’apprendistato migliore è sbatterci la testa, perché nessuno ti regala nulla e non puoi aspettarti che le cose nascano per caso. Nell’ultimo anno Paolo e io abbiamo lavorato giorno e notte. La scrittura e la composizione degli arrangiamenti richiedono di sperimentare. Se non fai tutto il possibile in questo senso, è difficile poi ottenere qualcosa. Tornando a quello che dicevo prima, nei primi due anni di attività non ho trovato un appoggio da parte dei miei genitori e cari. Ora, dopo parecchi concerti, sono divenuti più flessibili, ma inizialmente è stata una mazzata.

Ad ascoltare l’album si percepiscono divese influenze musicali, sia italiane sia straniere. Quali sono i tuoi artisti di riferimento?

Sono sempre stato molto pigro con gli ascolti, perché tendevo a riascoltare quei quattro o cinque dischi che mi piacciono molto e conosco già bene. Sicuramente parto da una certa scuola cantautorale romana (Fabi, Sinigallia e Silvestri su tutti). Grazie a Paolo, che è arrivato coi suoi sound più internazionali, sono riuscito a creare un connubio convincente. Il passo successivo sarà cercare di uscire da quella dimensione e rimettersi di nuovo in gioco. Ora ascolto moltissimo i Beatles: ci sono arrivato tardi (pure Paolo). Anche Andrea Laszlo di Torino mi piace moltissimo: il suo disco sembra uscito quaranta o cinquant’anni fa, ma è attualissimo. Rubare due o tre idee qua e là è utile per la composizione.

Progetti futuri?

Ho diversi concerti in cantiere. Il 19 dicembre ho presentato l’album al Magazzino sul Po di Torino: è andata benissimo, non me lo aspettavo proprio. Il 6 febbraio sarò a Milano al Mare Culturale Urbano, il 7 al Diavolo Rosso di Asti, l’8 allo Spazio Polaresco a Bergamo. Poi suonerò a Roma al ‘Na Cosetta il 7 marzo e il 13 marzo al Mercato Nuovo di Taranto. Il 28 gennaio invece sarò al Dobrinski pro-dischi Records di Bologna per un concerto in studio (con annessa intervista).

Finiamo con un gioco. Avessi un minuto per confessarti a tuo fratello, che gli diresti?

Mi cogli alla sprovvista. Gli direi di non fare cazzate, fare quello che più gli piace, ma ricordarsi che non è affatto semplice e nulla si può dare per scontato. Gli direi anche che può contare su di me, ma la cosa deve essere reciproca. Infine, non vedrei l’ora di poter guardare indietro a quello che entrambi abbiamo fatto in futuro, scherzando sui sogni che avevamo fino a qualche anno prima e nel frattempo abbiamo abbandonato.

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