Mondovì: «Che bello se il teatro abbandonato fosse visitabile ai turisti!». La lettera e la proposta dell'architetto Lorenzo Mamino
di LORENZO MAMINO, architetto
Con il titolo “L’ultimo teatro” iniziavo uno scritto su “Il Belvedere” ad aprile del 1978. E’ passato quasi mezzo secolo e il Teatro Sociale di Piazza, ultimo dei nostri teatri, è ancora in piedi, nonostante dimenticanze e incuria. Edificato negli anni 1847-1851, su progetto di G. Battista Gorresio, che come retribuzione del suo lavoro ricevette dalla Società del Teatro “una azione e mezza di sua proprietà”, fu gestito dai soci (documentati 53 come “soci fondatori” nel 1847) fino alla fine degli anni Settanta del Novecento.
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Venne poi ceduto gratuitamente al Comune ed è stato, da allora, chiuso e abbandonato. Vi sono penetrati ultimamente giovani fotografi di Urbex ed è stato oggetto, con altri, dell’ultimo numero della rivista “Studi Monregalesi”. Ma per ora è ancora lì ad aspettare. La sala, che poteva all’inizio contenere 350 spettatori e che è stata portata a 400 posti con l’inserimento della galleria nel 1933, è una tipica sala “a ferro di cavallo” tutta in legno, con gran palcoscenico e retropalco ora ingombri dai resti del tetto caduto. Ogni spettacolo, recita, comizio, veglione di Carnevale è cessato dalla metà degli anni Cinquanta. Tetto parzialmente crollato nel 1978 e ancora ultimamente nel 2019. Il “glorioso passato” è del primo Novecento, già in concorrenza dei primi cinematografi: 11 serate di spettacoli nel 1926, ben 27 nel 1927, addirittura 32 nel 1928. Poi la crisi, per difficoltà di bilancio ma soprattutto per la impossibilità di metterlo a norma dopo la emanazione del “Regolamento sui Teatri” del 1936 che imponeva restrizioni impossibili per una conduzione “societaria”.
Ma anche il Comune di Mondovì, proprietario da più di quarant’anni, non ha mai fino ad ora avuto la possibilità di operare un restauro. Però l’Amministrazione attuale, con decisione saggia, pensa di conservarne almeno la memoria se non l’uso e cioè di offrire ai monregalesi e ai turisti una vista del grande ambiente così come oggi si prospetta e cioè pensa ad un superbo spettacolo di rovina. Bisognava allora provvedere anzitutto alla sicurezza. Le visite dovranno avvenire su un percorso senza pericoli di cadute, future ma eventuali (e forse anche prevedibili). Che però sono caratteristica delle rovine. Le rovine sono difficili da stabilizzare e quindi non si restaurano e non si ristrutturano, si lasciano progredire. Se anche cambiano nel tempo permane la loro presenza ed è questa cui il visitatore vuole guardare. Il Teatro Sociale di Piazza come tutti i teatri di provincia ottocenteschi era poi, alla fine, un involucro in muratura cui era stata appesa, all’interno, una struttura tutta in legno che va da terra al tetto, compresi pavimento e copertura. Ora quindi occorre prima di tutto premunirsi contro possibili cedimenti della scatola muraria e per questo è occorsa una verifica strutturale del corpo di facciata, dei muri laterali e del muro contro terra di fondo. Cosa che è stata fatta dal prof. Giuseppe Pistone e che sarà messa in cantiere dall’impresa Fantino di Cuneo. Il cantiere già aperto ha però due vincoli: non asportare o danneggiare ancora di più la compagine lignea appesa all’interno e permettere il successivo (ancora da studiare) percorso “sicuro” di visita. Non è possibile quindi pensare che questo cantiere già allestito possa lavorare in libertà totale: tiranti in ferro, rinforzi murari e rifacimento del tetto crollato devono salvaguardare le strutture dei palchi e della galleria e permettere in futuro un percorso di visita nell’intento di regalare alla città una visione della sua storia, unica e importante. Anche nel rifacimento della parte di tetto crollata ultimamente occorrerà procedere in un certo modo. I teatri ottocenteschi erano spazi usati quasi solo di notte e pertanto erano privi di luce diurna. Le finestre di facciata del Teatro Sociale danno su ambienti di servizio (ingresso, scale, corridoi ai palchi), fianchi e retropalco non sono finestrati.
Ora che si vorrebbe una visita alla sala in rovina con ingresso diurno si deve anche pensare all’opportunità di ripristinare il tetto con falde trasparenti invece che opache e ciò per dare luce al percorso e alla visione dei palchi in rovina. I tre ordini di palchi sono già stati una prima volta ricoperti con struttura metallica e copertura opaca, ora si potrebbero usare invece onduline trasparenti. Certo la copertura alla fine risulterebbe di tre campi differenti (onduline opache, plafone intonacato e onduline trasparenti) ma si otterrebbe un punto di arrivo molto luminoso per il futuro percorso e luminosa a sufficienza la spettacolare veduta dei palchi e della galleria, senza necessità di luci artificiali. Già si esclude il bisogno di un impianto termotecnico ma sarebbe anche un non piccolo risparmio il non dover pensare ad impianti di luce per le visite.
Esaminati con l’assessore Sandra Carboni e l’architetto Marco Martorano i disegni del nuovo intervento strutturale, si direbbe che il modo meno costoso di creare un percorso di visita sarebbe quello di entrare dall’ingresso di via delle Scuole, salire di un piano con le vecchie scale in muratura esistenti, percorrere in leggera salita l’intera platea antica, arrivare sul vecchio palcoscenico e da lì contemplare il Teatro in rovina (veduta grandiosa) per poi uscire salendo in fondo, di nuovo con le scale in muratura esistenti, in via Andrea Pozzo (due piani sopra). La visita sarebbe paragonabile, anche se più prosaica, all’allestimento ora offerto da “Infinitum” ma senza bisogno di visori. Certo, alla Missione, si ammira un complesso unitario, ottimamente restaurato e assolutamente eccezionale. Qui invece si offrirebbe un interno martoriato e un’architettura molto più ordinaria. Si offrirebbero rilievi in cartapesta, dorature a pennello, velluti logori e sgualciti, sedili di legno e colonnine di ghisa ma, sommando il tutto, si darebbe un’idea totale del nostro Ottocento, sontuoso e frivolo, di una società fatta di nobili un po’ decaduti, professionisti seriosi, impiegati di rango e benestanti. Società che ormai è del tutto sparita. Un ricordo di serate che si volevano a tutti i costi spensierate e che spesso risultavano poi solo disagiate. Il riscaldamento dei palchi, nell’Ottocento, era demandato ai soci proprietari, la platea era dotata di una stufa a legna o a segatura, i balli erano su doghe di legno, le rappresentazioni, dal grande affaccio a “ferro di cavallo”, erano viste e udite con difficoltà. Ma gli spettatori potevano portare cibi e bevande ed erano sopportate interruzioni di applauso oppure di biasimo e di scherno. L’allegria doveva regnare sovrana. Manifestazioni cittadine non più ripetibili e non più invidiabili. Qui, in visita, noi dovremo accontentarci di un malinconico ritorno. Ma sarebbe già molto bello, importante, unico esempio in Piemonte e, si crede, in Italia.
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