Mamma e figlio dimessi lo stesso giorno: «Al Covid di Ceva eroi in corsia»
«Non dimentico tutti gli operatori sanitari che mi hanno curato, chiamo ogni giorno in reparto a Ceva. Sono ragazzi e ragazze meravigliosi. Voglio partire volontariamente dal basso della piramide: le oss, gli infermieri e i medici. Tutti fondamentali. Temo un po’ questa riapertura perché non possiamo permetterci un’altra ripartenza del virus e dobbiamo farlo per loro, i sanitari. Ci sono persone che non sono più tornate a casa da quando lavorano nel reparto Covid e dormono negli alloggi adiacenti. Non vedono i loro cari da mesi, rischiano il crollo psicologico». Gian Franco Pollano, 57 anni, di Carrù, ha passato oltre quaranta giorni nel reparto Covid dell’Ospedale di Ceva, assieme a mamma Pasqualina. Ma questo è il messaggio su cui insiste più volte: «Sono loro gli eroi: io ho semplicemente accettato il percorso, e loro mi hanno coccolato». Ora che è tutto finito la definisce una «prova», il Covid-19 è molto «democratico» e può colpire davvero chiunque. Questo è l’insegnamento numero uno. Il suo invito è a sensibilizzare – ancora in questo momento difficile – le donazioni all’Ospedale di Ceva (CLICCA QUI), direttamente tramite la onlus Abacus.
Poi c’è la storia nella storia. Della sua mamma ultraottantenne, Pasqualina, che viene ricoverata praticamente simultaneamente e, altrettanto in simbiosi col figlio Gian Franco, viene dimessa. È la storia di un tampone che non ne sapeva di negativizzarsi, poi il 29 aprile scorso la bella doppia notizia. «Un segno del destino, io dico che è genetica. Stavo bene ormai da 25 giorni, ma non volevo lasciare da sola mamma e così non ho firmato il foglio delle dimissioni». Va a metafore: «Io mi sono un preso un calcio negli stinchi, per lei è stata una badilata nei denti. Ma ora sta bene, si è ripresa alla grande ed ha una voglia matta di andare nella casa di Clavesana, a raccogliere un po’ di ciliegie». Ora che Gian Franco è tornato da moglie e figlia, deve quasi “insistere” per trattenerla per un po’ ancora in casa.
E arrivò un bancale di calzari
Nel mentre ci sono stati 8-9 tamponi. E c’è una terza storia, questa volta raccontata dal dottor Carlo Lorenzo Muzzulini, direttore del reparto di medicina interna a Ceva e presidente della Onlus Abacus. Usa solo lettere, come sigle, ma i personaggi sono gli stessi. È il racconto del «signor “A” (Gian Franco, ndr) che si reca al Pronto Soccorso per dei sintomi che non lasciano dubbi. Il giorno dopo ci annunciano la necessità di ricoverare una signora anziana con la stessa diagnosi, la signora “B”. Destino vuole sia la mamma di A. E così la nonnina riesce ad essere accudita dal figlio e non perdere quel senso dell’orientamento tanto fragile alla sua età. Quando A sta bene, gli propongo una dimissione in quarantena ma lui mi dice di non poter lasciare sola in reparto mamma. Va bene, è cura anche questa. Il giorno dopo mi chiama. “Mi son dato da fare e la mia famiglia vi vuole aiutare”». La mattina successiva ecco che arriva un bancale di calzari per tutto il personale.
«La mia famiglia faceva da 10% di tutti i ricoverati Covid (2 su 20): era il minimo che potessi fare», continua Gian Franco. «Ho trovato nel primario Muzzulini una persona dalla grande umanità e sensibilità preziosa. Nei giorni successivi ha escogitato il modo, tramite la terrazza, di farci vedere da lontano i parenti. Per chi si trova lì, in quello che è un “41bis” non meritato è la salvezza. Non dimentico lo sguardo dei miei compagni di reparto, anche giovani, nell’isolamento più totale. La roba con cui entri, scarpe e vestiti, sparisce completamente, è contaminata. Mi chiamavano il “maratoneta” perché, finita la cura, mi hanno sospeso l’ossigeno e io andavo avanti indietro. Mi mettevo anche a scaricare il cestello dell’acqua. Se c’è una cosa che ho visto è che ogni paziente aveva comunque un decorso diverso, è un virus davvero strano».
Il "paziente uno" di Carrù, l'antefatto
Gian Franco diventa il “paziente uno” di Carrù venerdì 21 marzo. Con una vicenda a monte tutta particolare. «Ero stato ricoverato la domenica prima per tutt’altro motivo, quando mi era stata diagnosticata una colica renale. Proseguo la cura a casa, poi da mercoledì comincio ad accusare qualche linea di febbre, mi sentivo strano, come se avessi nel corpo la testa di qualcun altro. Quindi torno in Ospedale e rifaccio le analisi del sangue. Da domenica a giovedì erano cambiate completamente». Da lì inizia tutto, l’innesco di quella che è «un’esperienza che ovviamente non rifarei, ma che comunque mi ha arricchito molto. Noi siamo stati fortunati: l’onore deve andare a quei ragazzi meravigliosi in corsia». Sono angeli, che questa volta di bianco portano il camice. «Io e mia moglie ringraziamo davvero col cuore tutte le persone che ci sono state vicino in questo percorso particolare di vita».
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