Il mito di Ian Curtis – L’arte e la tragedia 40 anni dopo

Una delle più originai e promettenti creature del post-punk si disintegrò di colpo insieme con un’anima troppo fragile. Giacomo Bagna ricorda una delle figure più influenti della fine degli anni 70

di GIACOMO BAGNA

Quando l’ormai ex moglie di Ian Curtis trovò il suo corpo esanime appeso a una rastrelliera della loro cucina, il frontman dei Joy Division aveva appena 23 anni. Era il 18 maggio del 1980 e la band, con un solo album all’attivo e un’opera seconda sul punto di vedere la luce, avrebbe cominciato il primo tour americano un paio di giorni dopo. L’attesa che pubblico e critica nutrivano per scoprire finalmente una delle più originali e promettenti creature del post-punk si disintegrò di colpo insieme con l’anima troppo fragile di Curtis. È innegabile che lo spettro del suicidio abbia sempre aleggiato sulle canzoni dei Joy Division, cullato dal timbro profondo e cupo del suo cantante (che rievocava quello di un altro principe maledetto del rock come Jim Morrison), tanto da far ammettere ai suoi sodali di aver sottovalutato un’evidente minaccia. È altrettanto innegabile tuttavia che i testi di Curtis non abbiano mai assunto i crismi della disperazione insanabile a cui segue di solito una più o meno esplicita richiesta d’aiuto: ciò che stupisce ancora oggi e il gelido disincanto con cui analizza la sua incompiutezza, e la terribile lucidità con cui identifica quello che sarà l’epilogo più scontato. In questo senso è spaventosamente premonitrice la copertina di Closer, che raffigura un monumento funebre e che, benchè l’album sia stato pubblicato postumo, era stata già decisa da tempo. Il mito di Curtis, martoriato da una forma molto forte di epilessia fin da giovanissimo e da vicissitudini poco fortunate (l’ultima, prima della tragica fine, la separazione dalla moglie Deborah Woodruffe, che ispirerà il brano forse più famoso dei Joy Division, Love Will Tear Us Apart), e sopravvissuto nell’opera di numerosi artisti negli anni successivi, e a quarant’anni di distanza si può affermare senza timore di smentita che la band di Stretford (un sobborgo di Manchester) sia stata una delle piu influenti in assoluto nella storia della musica moderna. Kurt Cobain, la cui figura ha sfortunatamente più di qualche similitudine con quella di Curtis, lo citerà come fonte di ispirazione; i Cure, con cui i Joy Division si erano consacrati suonando insieme al Marquee di Londra nel 1979, dedicheranno al compianto cantante una canzone, The Holy Hour (da Faith, 1981), e i Nine Inch Nails di Trent Reznor nel 1994 realizzeranno una cover di Dead Souls, splendido b-side di un altro capolavoro come Atmosphere. È difficile restituire l’idea di una grandezza tanto abbagliante in cosi poche battute, e d’altra parte qualsiasi cosa scrivessi non farebbe altro che sminuire il genio terrificante di Ian Curtis. Forse il pensiero migliore che nel mio piccolo posso tributare a un artista di questa caratura e dedicargli i versi di un altro artista universale, se non altro perché ai Grandi ci si deve rivolgere con la lingua dei Grandi, oltre che con la dovuta deferenza, e poi non penso sia mai stato scritto un epitaffio migliore. Per chi viaggia in direzione ostinata e contraria / col suo marchio speciale di speciale disperazione / e tra il vomito dei respinti muove gli ultimi passi / per consegnare alla morte una goccia di splendore / di umanità / di verità

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