Se si chiedesse a un inglese di mezza età qual è il decennio che più ha influito sulla storia contemporanea del Regno Unito, probabilmente risponderebbe gli anni ’80. Basti pensare alla rinnovata fiducia nell’impresa e nell’uso della forza militare. Alla crisi del Labour e dei trade union (sindacati). Alla definitiva vittoria della città come spazio di esistenza del cittadino. Alla disoccupazione capillare, che spesso sfociava in episodi di violenza e repressione da parte dello Stato. A guardare dall’alto le vicende di cambiamento sociale stava la presidente Margaret Thatcher, eletta nel 1979 e solitamente ricordata – insieme a Reagan, Gorbačëv e Craxi – come l’emblema del decennio. Insomma, gli Ottanta trasformarono alle radici (senza possibilita di reverse) la cultura e la società britanniche. Senza quegli anni, i Brits odierni vedrebbero riflessa nello specchio un’immagine diversa di se stessi, forse meno complessa e sfaccettata.
Proprio fra il 1979 e l’anno successivo si consumarono rapidamente l’ascesa e la fine dei Joy Division. Venivano da Manchester, città in cui già band minori come i Buzzcocks e i Fall avevano gettato le basi di quel genere musicale conosciuto come post-punk. L’esistenza del gruppo ruotava attorno alla figura fragile di Ian Curtis, che conobbe il successo solo dopo la morte avvenuta agli albori del decennio (quel 18 maggio di quarant’anni fa). Una candela bruciata at both ends, direbbero gli anglosassoni. I Joy Division erano band nuova nel panorama del rock mondiale. Incorporavano la desolazione, l’alienazione e il senso del vuoto dell’uomo post-industriale in brevi “tragedie espressioniste”. Nei loro brani, infatti, l’enfasi era posta “sulle atmosfere, invece che sulla semplice rabbia” (come dice giustamente il critico Piero Scaruffi).
In questo senso, “Disorder”, brano tratto dal primo album Unknown Pleasures, è un manifesto di un’intera epoca. La sezione ritmica della canzone è disordinata e costellata di errori esecutivi e dissonanze più o meno volute. La voce gutturale di Curtis canta le manie di una societa sempre più disgregata. Il cantante è alla ricerca di una stabilita emotiva e dei “piaceri dell’uomo normale”: “I’ve been waiting for a guide | To come and take me by the hand | Could these sensations make me feel | The pleasures of a normal man? | Lose sensation, spare the insults | Leave them for another day | I’ve got the spirit, lose the feeling | Take the shock away”. L’attenzione si sposta sulla crescente indifferenza delle persone che lo circondano: “What means to you, | what means to me | And we will meet again | I’m watching you, | I’m watching her | I’ll take no pity from your friends | Who is right, who can tell | And who gives a damn right now?”.
Insomma, Ian Curtis e i suoi Joy Division furono l’emblema di una società in mutamento. Meglio di qualunque altro gruppo, anticiparono la decadenza delle certezze ingenue della civiltà post-bellica e dipinsero il formarsi di una ferita profonda e inevitabile nella concezione della vita dell’uomo. Furono i primi a “vivere alla fine dei tempi”, come avrebbe detto Slavoj Žižek molti anni dopo. “Until the spirit new sensation takes hold | Then you know”.