Tappa quasi obbligata per chi si addentra tra le bellezze della nostra Langa, risalendo i tornanti che collegano la Fondovalle Tanaro, da Bastia, a Cigliè, il ristorante “Al Castello” è diventato, nel corso degli anni, un vero “must” della ristorazione locale. Qui, tra le mura di una storica abitazione del centro, tra collezioni di antiche caffettiere, banconote da ogni parte del mondo, ricordi e oggetti di ogni tipo e… una televisione nel frigorifero, Paolo Aimo e la moglie Grazia, per 24 anni hanno letteralmente coccolato i clienti, in un ambiente famigliare, dove sembrava davvero di star seduti nel salotto della nonna. Irrinunciabile il “carrello degli antipasti”, famosissimo ormai ovunque, fornito di tutte quelle specialità di Langa che, nei giorni di festa, non sono mai mancate nelle cucine delle famiglie langarole. Acciughe al verde, trota in carpione, vitello tonnato, tomini e moltissimi altri piatti (oltre una ventina, ogni giorno), si fondevano in una sorta di “pericolosissimo” buffet, dal quale era praticamente impossibile uscire indenni: «Quando portavo il carrello in tavola – spiega Paolo, nel salotto di casa sua – era come aprire un libro di storia della cucina di Langa. Ogni piatto era preparato secondo la tradizione ed era inserito nella nostra lista per un motivo preciso, spesso legato ad un ricordo, ad un amico o ad un aneddoto». E poi, superato il primo “ostacolo”, avanti con i primi, tutti rigorosamente “fatti in casa” da Grazia: i ravioli, gli gnocchi, il minestrone di trippe, gli immancabili tajarin, lasciati in tavola direttamente nel vassoio, così chi voleva poteva assaggiare. «Abbiamo sempre voluto proporre una ristorazione di qualità e sostanza, basata sui piatti della Langa povera – prosegue Paolo –. Per questo da noi, oltre ai normali sughi, si potevano mangiare le “raviole al vin” o le “raviole al fùm” (letteralmente “al fumo”, cioè bianche, senza condimento). Mi viene da sorridere quando sento “i tajarin della tradizione con 40 tuorli”, quella non è la nostra cucina. Adesso il piatto deve essere bello e poi, forse, anche buono; per noi invece è sempre stato il contrario. Ai tempi dei nostri genitori, le uova si vendevano al mercato e per i tajarin se ne usavano un paio, non di più. Questi sono i valori che abbiamo portato avanti per tutto questo tempo. I nostri nonni non avevano il ragù, così, quando capitava l’occasione di mangiare i ravioli, si facevano “al vin” o si mangiavano in bianco». Il menù di Paolo e Grazia proseguiva poi con i secondi, dal coniglio, al brasato, al cinghiale, per concludersi con un tavolo dei dolci da lasciare a bocca aperta.

Un monregalese “di Langa” e una altoatesina che non sapeva cucinare… così è iniziato tutto
42 anni di matrimonio, sempre così, sempre insieme, fianco a fianco, fin dagli albori. Uno in sala, pronto ad accogliere i clienti con una battuta, un sorriso; l’altra ai fornelli, attenta che tutto ciò che arrivava in tavola fosse perfetto. Paolo, monregalese, maestro di sala da sempre: da lui e dalla sua famiglia arriva la tradizione di Langa, simbolo del locale. Grazia, altoatesina di Vipiteno, giunta tra le nostre colline che non sapeva cucinare e diventata, poco alla volta, uno chef di prim’ordine, capace di gestire completamente da sola l’intera cucina, gestendo senza problemi oltre cento coperti in contemporanea. «Sono sempre stata “curiosa” – racconta Grazia –. Mi piace imparare. Di ogni posto che ho visitato, da ogni persona che ho conosciuto, ho tratto e cerco di trarre insegnamenti. E funziona così anche in cucina. Nel 1981 siamo andati in vacanza in Puglia e siamo tornati con una delle prime ricette del limoncino che si vedevano da noi». Erano proprio i primi anni ’80 quando Paolo e Grazia, giovanissimi, avevano iniziato a gestire un bar a Mondovì, per poi rilevare, nel 1983, l’allora osteria “Vecchia Europa”, in piazza Santa Maria Maggiore, rilanciando un locale che invece sembra avviato verso il tramonto. «Dopo 4 anni intensi, abbiamo lasciato il ristorante – ricorda Paolo – e ci siamo dedicati a nostra figlia Michela. Poi abbiamo ripreso, prendendo in gestione lo Sporting Club di Mondovì». Il resto è storia di 24 anni fa: «L’alluvione del Tanaro del ’94 aveva distrutto tutto. Quando la gente ha saputo che aprivamo un ristorante a Cigliè, tutti ci hanno preso per matti – spiega Paolo –. Proprio su L’Unione Monregalese era comparso l’annuncio di vendita dell’allora osteria di Clerico, a Cigliè, in quella che chiamavano la “Cà del vuscu”. L’inserzione era un misto di italiano maccheronico e piemontese e, incuriositi, siamo andati a vedere. Arrivati a Cigliè, visto il panorama, abbiamo firmato subito. Ci siamo innamorati del posto in due minuti. Da allora è iniziato tutto, era il 16 giugno 1996».

«Un solo rimpianto. Non abbiamo potuto salutare i clienti come avremmo voluto»
Ora, per Paolo e Grazia, è venuto il momento di cedere le armi. La storica osteria di Cigliè “passa di mano”. Paolo lo aveva annunciato da tempo ai clienti, già dall’anno scorso: «Basta. Dopo tanti anni ai fornelli e in sala, è venuto il momento di riposarci un po’ – ci aveva detto durante un pranzo tra amici, l’autunno scorso –. C’è una sola cosa che ci dispiace: per l’emergenza Covid non abbiamo avuto modo di salutare i clienti come avremmo voluto. Non mi ricordo l’ultima persona che ha mangiato da noi, l’ultimo servizio. Siamo stati costretti a chiudere dall’oggi al domani e non abbiamo potuto farlo come avremmo voluto, salutando i tanti clienti che sono ormai anche diventati buoni amici». Paolo e Grazia lasciano l’attività ad un ragazzo in gamba, Pierluigi Vivalda, chef di Rocca Cigliè con grande esperienza alle spalle, che in questi mesi hanno affiancato nel locale. Si chiude un’era e si apre un nuovo, intrigante capitolo, tutto da scoprire. Con una punta di malinconia, salutiamo i “vecchi” gestori, sicuri che il nuovo proprietario saprà sicuramente continuare a deliziare i golosi della tradizione.
Antipasti al carrello e vassoi in tavola…
Gli antipasti al carrello, il tavolo dei dolci e i vassoi lasciati sul tavolo, sono tre segni distintivi, caratteristici da sempre dell’osteria di Cigliè. Trota in carpione, battuta al coltello, vitello tonnato venivano direttamente serviti da un grande carrello, portato in sala da Paolo: ognuno sceglieva quali e quanti antipasti voleva. Bunet e crostate non mancavano mai sul tavolo dei dolci mentre, per consentire a tutti di “fare un assaggino”, spesso i vassoi dei primi o dei secondi venivano lasciati sul tavolo, in modo che ognuno potesse servirsi a piacimento.