Revolver era stato il disco della svolta. I primi quattro secondi di quel disco, con la voce a contare il tempo per l’attacco, quasi come se si trattasse di una ripresa dal vivo, con rumori di fondo, colpi di tosse in qualche modo avevano simboleggiato un cambio di paradigma per lo standard pop. Tant’è che proprio quel frammento di “Taxman” è il punto di partenza di un libro, appunto i “Primi quattro secondi di Revolver” di Gianfranco Salvatore, dedicato ad approfondirne l’importanza nel contesto di quegli anni. Il successivo “Sergent Pepper’s Lonely Hearts Club Band” è stato senza dubbio il disco della svolta. Da una pop band, intenta a incidere dischi per promuovere i concerti, i Beatles sono passati in quegli anni ad essere un gruppo di musicisti intenti a usare lo studio come proprio habitat naturale, strumento aggiunto ai più classici chitarra, batteria, basso e tastiere. Tra le me- Come ogni fenomeno culturale pop, i Beatles hanno lasciato tracce un po’ dappertutto nell’arte e nell’intrattenimento. Anche il cinema naturalmente ne è stato fortemente ispirato, e molti registi e sceneggiatori, appassionati della band, hanno piazzato riferimenti nei propri fi lm o parlato direttamente di loro. Ultimo in ordine di tempo Danny Boyle, che con “Yesterday” ha allestito una pellicola incentrata sulla loro fi gura, dove però si immagina paradossalmente un mondo in cui non vi sia memoria alcuna del gruppo: un modo alternativo per permetterci di comprendere, attraverso l’assenza, la portata della loro infl uenza. I riferimenti ai Beatles si annidano dappertutto nel cinema, ed è giusto so_ ermarsi su quei lavori che li hanno coinvolti direttamente. A_ ancare carriera musicale e attività fi lmica era una consuetudine negli anni ‘60, come utile traino per la promozione del disco e al contempo al lancio del personaggio su grande schermo. Per la band di Liverpool l’esordio in sala è avvenuto nel 1964 con “A Hard Day’s Night”. La dura giornata di lavoro, che vede impegnati i Fab Four, passa dalle prove per lo spettacolo televisivo alle esibizioni, dalle ammiratrici alla fuga di Ringo. Al centro naturalmente le canzoni, tuttavia distaccate dall’avere una funzione sugli eventi della trama, com’era consuetudine per i fi lm musicali del periodo. Dell’anno seguente “Help!” divenuto da noi “Aiuto!”: pellicola questa volta incentrata su una storia di pura fantasia, che mantiene però la struttura del fi lm precedente, a_ dando alle canzoni il solo compito di raccordo e intermezzo musicale. Con “Yellow Submarine” troviamo invece un connubio tra musica e narrazione più saldo: entrano in gioco animazione, pop-art e psichedelia (siamo nel 1968). E il lavoro nell’insieme entra nel mito. L’apporto di John, Paul, George e Ringo al cinema non è destinato a concludersi con lo scioglimento del gruppo, basti ricordare l’importante sforzo economico di Harrison, per tenere in vita il progetto dei Monty Python “Brian di Nazareth”, attraverso i fondi di una casa di produzione creata dall’ex beatles appositamente (la HandMade), attiva in seguito per diversi decenni. daglie che “Sergent Pepper’s” si porta dietro c’è anche quella di essere stato il primo concept album, titolo non del tutto meritato, visto che non è un concept in senso stretto: più che un fi lo narrativo che percorre le canzoni, infatti, il concerto della banda dei cuori solitari del sergente Pepe è una cornice, che lega insieme brani molto diversi tra di loro. In effetti è singolare come in questo modo l’album risulti omogeneo pur spaziando da suoni molto diversi, dalle ascendenze indiane di “Within you without you” alla lisergica psichedelica di “Lucy in the sky with diamonds”. La varietà di strumenti che si ascolta nelle tracce sembra illimitata, se in Revolver si iniziava a fare i primi esperimenti con nastri e registrazioni, qui la fantasia si scatena. Il disco si apre con un collage di rumori, presi dagli archivi di Abbey Road (che i quattro iniziarono a saccheggiare) che evocano, appunto, l’atmosfera di un concerto, simulando un contesto dal vivo, con gli applausi del pubblico, gli strumenti che si accordano. Le trovate compositive del gruppo diventano coraggiose, ai limiti dell’avanguardia, come si sente nell’incredibile arrangiamento di “A Day in the life” dove l’intera orchestra si lancia in una folle sequenza di glissandi, che porta il brano in un’inedita progressione verso il caos.
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