Il disco dell'anno quest'anno lo cerchiamo nel passato:
Un disco è per sempre, o almeno così dovrebbe essere, traslando la pubblicità di un noto oggetto di lusso. Per coloro che provano un attaccamento anche per la “fisicità” della musica, il 2020 ha assunto connotazioni diverse tra acquisti on line, sviluppo del “delivery” e boom dello streaming. Gli album prodotti non sono stati numericamente inferiori rispetto al solito, più concentrati in un lasso di tempo ristretto. Ciò che ha mutato la nostra percezione è l’incapacità di seguire ciò che stava accadendo: tutto troppo veloce. E la mancanza di live ha reso tale percezione più rarefatta, e riportato unicamente a quanto la rete ci fornisce. Solitudine e distanziamento hanno condizionato, per necessità oltreché per scelta, i nostri comportamenti, anche nell’ascolto. E per quanto sarà possibile stilare le classifiche dei migliori dischi, sarà un esercizio comunque diverso dal passato.
Ecco perchè si è deciso di non dare al lettore la possibilità di scegliere il proprio “Disco dell’Anno”: probabile che abbiamo riesumato ascolti più datati e che ci sono sembrati quanto mai calzanti e meritevoli di considerazione. Da qui è nata l’idea di proporre il contest del “20 per 20, ma non del 2020”: scegliere, da una lista di titoli che giungono principalmente dagli ultimi 20 anni, un disco che possa rappresentare quanto abbiamo vissuto anche meglio delle uscite del 2020.
Vediamone alcune. Due dischi sono più datati, e danno la rotta: in Wish You Were Here (Pink Floyd) e Closer (Joy Division) si parla di assenze, lontananze e isolamenti, forzati e condizionanti le relazioni. “...Questa Nazione è brutta ti fa sentire asciutta, senza volontà” cantavano gli Afterhours per raccontare lo stato delle cose e liberare, nel ritornello, la consapevolezza che nulla sia per sempre. Like Clockwork dei Queens of Stone Age, nell’anno in cui i Daft Punk – presenti con il loro viaggio digitale di Discovery – pubblicavano Random Access Memories, è un lavoro nato dalle difficoltà di Josh Homme, dovute alla malattia e alla depressione, ma pieno di speranza. I Radiohead di Kid-A ci lasciavano un senso di pienezza con i loro nuovi suoni, ma al contempo la sensazione di aver chiuso con il secolo. Neon Bible degli Arcade Fire, oltre ad essere uno degli album più oscuri della band canadese, propone due brani più che pertinenti come No Cars Go e My Body is a Cage; così come si è pensato a Back to Black della compianta Amy Whinehouse e gli Iori’s Eyes per raccontare la solitudine e l’oscurità. La sottile malinconia di Cosmo per un mondo a tinte anni ‘80 o i viaggi, anch’essi mentali, che Sufjan Stevens comincia nel 2005 con Illinoise e quello nell’amata Sardegna di IOSONOUNCANE, o la profonda sorpresa portata da Kanye West nel 2004. Le esclusioni ne Il Gioco delle Parti di Willie Peyote hanno per contraltare la forza d’aggregazione di Seven Nation Army degli White Stripes; mentre nel disco di Capossela si può trovare un senso di protezione. Viva la Vida e WOW sono dischi pieni di stupore, e resta da chiedersi quanto profetici siano stati i Green Day nel 2009 a preconizzare un “breakdown” del 21° secolo o Cardi B nel 2018 quando parlava di “Inviasion of Privacy”.