Gli ospedali del Piemonte riaprono parzialmente le porte alle visite dei familiari ai pazienti

Nei casi di malati in condizioni particolarmente critiche e per assistere le partorienti. Obiettivo: «avviare un processo di “riumanizzazione” all’interno dei presidi e farlo nella massima sicurezza»

Gli ospedali del Piemonte riaprono parzialmente le porte alle visite dei familiari ai pazienti. Il Dirmei ha infatti inviato a tutte le aziende sanitarie delle linee guida da applicare presso le proprie strutture, per consentire innanzitutto l’incontro tra ricoverati in particolari criticità cliniche o psicologiche e i loro congiunti e per l’assistenza alle donne che debbano partorire, indicando rigide regole da seguire perché questi momenti si svolgano nella massima sicurezza. «Superare l’isolamento estremo dei pazienti in ospedale - osserva l’assessore regionale alla Sanità del Piemonte, Luigi Genesio Icardi - anche se solo per una parte selezionata di malati, risponde alla necessità di reintrodurre un elemento di naturale, ma ‘cruciale’ umanità nel vissuto dei contagiati e dei loro famigliari, augurandoci che possa trattarsi di un primo passo verso il graduale ritorno alla normalità. Il conforto degli affetti è un aspetto da tenere nella massima considerazione, compatibilmente con lo stato di necessità degli ospedali».

A valutare quando per un paziente, covid o non covid, sia opportuno, dato lo stadio della sua malattia, incontrare un membro della propria famiglia sarà un’equipe multidisciplinare di reparto composta da medico, infermiere e psicologo clinico. La presenza di quest’ultimo è giudicato fondamentale nel caso dei malati covid-19 e dei loro parenti, con cui questi ultimi possono avere, se necessario, un colloquio preliminare sia telefonico, sia “in presenza”. Nel caso dell’accesso a un reparto Covid, per un congiunto le condizioni indispensabili sono l’assenza di sintomatologia riferibile a una possibile infezione da coronavirus e l’esecuzione, presso la struttura ospedaliera, di un tampone rapido, che ovviamente deve essere negativo. A quel punto, dopo l’incontro con lo psicologo, l’infermiere guida il congiunto nelle operazioni di vestizione dei Dpi in un’area “filtro”, che prevedono: camice idrorepellente, guanti, mascherina filtrante FP2/FP3, visore e cuffia.

Il parente può così essere introdotto in reparto, per un incontro che può durare 20 minuti. In situazioni cliniche terminali o di grave malessere psichico, in caso di congiunti anch’essi positivi a domicilio, è possibile per i Sisp, su richiesta del medico di reparto, derogare all’isolamento, purché la persona possa spostarsi autonomamente con mezzo proprio e lo psicologo clinico e l’infermiere indossino fin dal primo momento i Dpi.

Non molto differente la procedura per la visita a un congiunto non affetto da coronavirus, ad eccezione di una vestizione che comprende solo mascherina FP2 e camice visitatore, a condizione ovviamente che il tampone rapido d’ingresso sia negativo.

Infine, il documento adottato dal Dirmei, prescrive le modalità perché d’ora in poi anche le donne durante il travaglio e il parto possano essere assistite da una persona di loro fiducia, elemento considerato fondamentale per il loro benessere dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Nel caso né la partoriente, né la persona scelta siano positivi al coronavirus, è sufficiente per l’accompagnatore indossare mascherina FP2 e camice filtrante. Nel caso contrario che uno dei due sia positivo, il visitatore dovrà indossare una dotazione di Dpi completa. Anche in questo caso, in situazioni cliniche complesse e di particolare disagio, il Sisp può decidere di sospendere l’isolamento di una persona positiva che debba assistere una partoriente.

«L’isolamento in ospedale – sottolinea Emilpaolo Manno, direttore del Dirmei, che ha guidato il gruppo di lavoro, con il contributo fondamentale della referente di psicologia dell’Unità di crisi, Monica Agnesone, e dell’urgentista Fabio De Iaco – costituisce una condizione inedita, con la quale si devono confrontare i pazienti, i loro congiunti, ma anche gli operatori sanitari, spesso costretti a giocare ruoli per i quali non sono sufficientemente preparati e che, nel contempo, possono generare vissuti di difficile elaborazione. Non dimentichiamoci poi che, pur se molto difficile da dimostrare scientificamente, è opinione comune che il recupero, sia pure parziale, della socialità e degli affetti da parte di pazienti clinici, possa concorrere a un miglioramento della loro condizione. In tutto questo, non dobbiamo dimenticare la primaria esigenza di mantenere un rigido controllo sulle possibilità di trasmissione del virus. Le nostre linee guida cercano di coniugare queste due insopprimibili necessità: avviare un processo di “riumanizzazione” all’interno dei presidi e farlo nella massima sicurezza».

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