«Sono ben consapevole che tanti altri potrebbero dire di mons. Sebastiano meglio di me e in maniera più appropriata, poichè la mia conoscenza è limitata agli ultimi quattro anni, quando le forze cominciavano a declinare, lasciando però intuire lo spessore umano e spirituale che lo aveva accompagnato – ha detto mons. Egidio Miragoli al termine del Rosario in cattedrale mercoledì sera pregando appunto per il vescovo Sebastiano Dho, spentosi martedì sera 31 agosto –. Mi limiterò pertanto a condividere quanto ho attinto da lui nella frequentazione quotidiana presso le Suore Teresiane, facendo sintesi anche di alcune testimonianze raccolte, e soffermandomi principalmente sul periodo monregalese, certo che altri, a tempo opportuno potranno completare e integrare. Mi pare che la sua vita il suo ministero a servizio della Chiesa, lungo ben 63 anni, dei quali 28 da presbitero e 35 da vescovo, possano essere facilmente divisi in quattro momenti o tappe: Mondovì, Saluzzo, Alba, Mondovì».
PRESBITERO A MONDOVÌ – «La Diocesi di Mondovì lo vide nascere e crescere, lo vide prete in molteplici ruoli e servizi. Rimase legatissimo alla sua Frabosa dove è nato e dove ha trascorso le estati durante il periodo di studi in Seminario, nel quale era entrato già all’età di 10 anni – ha continuano mons. Miragoli –. La mamma, vedova da quando lui aveva pochi mesi, era impegnata anche nel periodo estivo e la parrocchia di Frabosa era diventata il suo punto di riferimento. Per questo, grato per le attenzioni ricevute, vi ha sempre fatto ritorno fino alla morte del parroco. Divenne sacerdote nel 1958. Erano anni di grande abbondanza di clero per la nostra Diocesi. Accettò ben volentieri di fare il parroco per sei anni in uno sperduto paese del versante ligure, Nasino. Di questa “sua” prima Parrocchia, ne parlava come se il tempo non fosse passato, tornando a salutare i suoi ex parrocchiani, e conservandone ricordi e aneddoti curiosi, di saggezza popolare. Nominato parroco di Peveragno, nel 1966 riuscì a riunirsi alla sua “adorata” mamma che lo accompagnò, ma che poco godette della sua compagnia perché colpita da un male incurabile. Nel Seminario di Mondovì cominciò ad insegnare teologia morale con spirito innovatore e rigorosa attenzione ai contenuti dei testi conciliari che citava con naturalezza e a memoria nei suoi punti salienti».
«Sentiva di avere una “mission”, quella di far conoscere il Concilio Vaticano II, ai preti, ai gruppi, alle realtà parrocchiali, a cominciare dalle famiglie. Un Concilio che gli aveva conquistato il cuore, dopo la teologia d’antàn che l’aveva piuttosto deluso. Con la sua utilitaria, per le strade della Diocesi, spendeva le serate per questo, in ogni occasione che gli veniva offerta – ha aggiunto il vescovo –. Fu un grande divulgatore dei testi conciliari, che cercava di assimilare misurandosi con la realtà delle persone, in concreto, in apertura d’animo, con attenzione e disponibilità a raccogliere dubbi, perplessità, interrogativi. Ma sempre rilanciando l’invito a crederci fino in fondo. Nominato direttore del settimanale diocesano “L’Unione Monregalese” mantenne sempre vivo l’impegno della pastorale diretta, prendendosi cura della parrocchia di Poggi; poi il vescovo mons. Giustetti lo volle vicario generale. Fu un periodo intenso, contraddistinto da tanti segni di fermento, rinnovamento, inquietudine. In questo tempo don Sebastiano percepisce in modo forte alcuni problemi della vita del prete, soprattutto la solitudine di molti sacerdoti.
Anche per questo tentò di costruire e sperimentare la fraternità sacerdotale. Spesso attraverso le sue visite ai confratelli nelle parrocchie, apparentemente senza motivo, ma in realtà con l’intento di non lasciarli soli; oppure condividendo la mensa in Seminario; infine con viaggi condivisi in un’amicizia che era gioviale e che sapeva anche andare in profondità».
«Con i sacerdoti manifestava attenzione e profondo rispetto anche quando praticavano percorsi difficili e non condivisi. Lo preoccupava il futuro del clero sempre meno giovane; si è dedicato con particolare entusiasmo alla cura della famiglia. Partecipa alla nascita e alla formazione di un gruppo di famiglie della diocesi (Centro Famiglia) e nell’impostazione e conduzione dei corsi per i fidanzati ed anche del centro di accoglienza alla vita. Il tutto nutrito con frequenti incontri conviviali, momento di incontro e di conoscenza ha proseguito –. Era solito ripetere che il più bel romanzo da leggere è conoscere la vita delle persone e delle famiglie. Interpellato sui suoi silenzi, nei quali a volte si trincerava, amava rispondere che “chi tace non dice niente”. Erano silenzi comunque sempre eloquenti, con i quali sigillava la confidenza ricevuta e tarpava le ali ad ogni pettegolezzo o banalità. Non fu comunque un periodo facile il tempo in cui fu Vicario generale; alcune sue intuizioni pastorali e alcune scelte, sempre condivise con il Vescovo, trovarono anche opposizioni faziose, tacitate, infine, solo con la sua nomina a Vescovo di Saluzzo. Ne ricordava i particolari con serenità, non preoccupato della sua persona o della sua immagine, ma solo rammaricato delle conseguenze pastorali. Nominato vescovo di Saluzzo e successivamente di Alba continuò a tenere vivi contatti con gli amici di Mondovì dove fece ritorno quando, raggiunti i 75 anni, lasciò l’incarico. La sua fu una vita semplice, come le sue origini, ma umanamente ricchissima, come è la vita di chi fin dall’inizio sperimenta la fatica, riconosce e gode dell’amicizia ricevuta».
VESCOVO A SALUZZO – «Continuò con questo stile anche una volta divenuto vescovo a Saluzzo, dove rimase dal 1986 al 1993. Era emblematico il suo modo di “vivere” quel territorio, percorso con l’auto mille e mille volte, nelle vallate, nelle borgate, nei paesi anche più piccoli, cercando i preti ma anche riflettendo con la gente, col desiderio di aiutare le persone a collocarsi dentro un disegno di Chiesa appunto conciliare, aperta, partecipativa, con limpido protagonismo laicale, dentro i problemi di tutti, in tempi che andavano cambiando rapidamente – ha affermato mons. Miragoli –. Mi raccontava di conoscere tutte le curve delle strade del Saluzzese, e dietro aveva presenti le comunità ed i preti con cui ha fatto un discreto tratto di strada, da pastore mai seduto, sempre in pista, anche in salita. Ed… aveva anche scalato il Monviso, da buon montanaro!»
VESCOVO AD ALBA – «I 17 anni trascorsi ad Alba (1993-2010) sono stati anche gli anni che hanno portato al cambio di secolo e di millennio, in una terra particolarmente vivace e complessa, come quella albese, intrisa di fermenti in tante direzioni. Erano, all’inizio, gli anni del Sinodo, da vivere con l’apporto di tutti – ha evidenziato ancora -. Di questa stagione, risalta la sua “passione” sacerdotale, accanto agli altri presbiteri, ma pure la responsabilità di esporsi evangelicamente dentro un’opinione pubblica intrisa di chiaroscuri e contradizioni, per dare segnali importanti anche alla comunità cristiana magari cedevole su terreni scivolosi come quelli che portano all’esclusione ed alla discriminazione, o a compromessi da evitare. Non sono mancate sue parole forti al riguardo, che qualcuno non ha voluto capire oppure ha distorto».
VESCOVO EMERITO A MONDOVÌ – «Il ritorno in diocesi di Mondovì nel 2010 ha potuto contare, subito, nei primi anni, ancora sulla buona vigoria della salute. Si mise subito a disposizione in tanti campi, con discrezione e disponibilità insieme, offrendo riflessioni sempre mirate – ha concluso il vescovo -. E sentendosi “occupato ma non più preoccupato” (come amava dire), condivideva pensieri, intuizioni, valutazioni, sulla stagione ecclesiale in corso, su cui era sempre documentato ed informato, coltivando una speranza serena, ma con i piedi ben saldi per terra, nell’oggettività dei problemi, soprattutto nel vagliare l’interpellante momento di secolarizzazione avanzata. Ma avvertiva, e soffriva, anche per involuzioni nella Chiesa stessa, in parti di essa, incredulo per certe barricate nostalgiche e improponibili. Amava moltissimo la storia della Chiesa, e conosceva i dettagli della nostra storia locale; da questa consapevolezza, rilanciava l’affidamento allo Spirito che la guida, lui stesso mettendosi in ascolto e in discussione, ma guardando avanti, oltre, in profondità. E fin che la salute l’ha sorretto, erano occasioni preziose quelle in cui ci si poteva confrontare su questi tempi e problematiche cruciali per la fede. Agli inizi del 2018 fu accolto dalle Suore Teresiane e da loro accudito con grande premura e delicatezza fino all’ultimo giorno, ieri, quando verso le 19 si è spento. Anche per questo siamo grati alle Suore Teresiane, e a Suor Roberta in particolare, per tanta vicinanza e carità. In questi ultimi mesi, quando gli acciacchi si facevano evidenti in varie maniere, per lui che sempre era stato in buona salute e autonomia, sovente lo coglievo in preghiera in Cappella, e mi sembrava di intuire, nonostante la pronta battuta con la quale camuffava la serietà dell’istante precedente, la sua preoccupazione e il suo affidarsi al Signore. Del resto il suo motto episcopale era “Spero nel Signore”, tratto dal salmo 129, che recita “Spero nel Signore, l’anima mia spera nella sua Parola” e dice il primato della Grazia, che sovente ribadiva. La Speranza, la Parola, la Grazia. Tre concetti che possiamo tenere come lascito prezioso del nostro caro vescovo Sebastiano. Sperare nella Parola significa sperare essenzialmente nel cuore del suo annuncio, cioè Cristo risorto. E ribadire che il primato spetta alla Grazia è ribadire la gratuità dell’azione di Dio nella Storia, alla quale possiamo e dobbiamo guardare anche tutti noi con sempre nuova fiducia».