Lo intercettiamo negli uffici di Acd Multimedia, dove è qui per rivedere il piano di comunicazione. Alessandro Bianchi, noto comico e attore, ha in essere da tempo un rapporto di collaborazione con l’azienda monregalese. Così è nata l’occasione per questa gustosa chiacchierata, con un interprete che ha attraversato da protagonista il mondo del cabaret negli ultimi trent’anni. A cominciare dai mitici “Cavalli Marci”, il collettivo genovese che riscosse un successo straordinario negli anni Novanta e che realizzò anche un film (“Come se fosse amore” e un programma “Ciro” su Mediaset). Alessandro Bianchi, formatosi allo Stabile di Genova, cominciò a farsi conoscere con loro, per poi proseguire la carriera in duo con Michelangelo Pulci e successivamente da solo. Volto noto del piccolo schermo, è apparso a Colorado Cafè, Matricole e Meteore, Quelli che il Calcio, Buldozer, Glob, Neurovisione, Scorie ed altri programmi ancora. Naturalmente, in parallelo, ha proseguito un’intensa attività teatrale. Una carriera straordinaria, che ha accettato di raccontarci, in questa divertente chiacchierata.
«Dovevo seguire la tradizione di famiglia e andare a vendere Parmigiano Reggiano. Ho iniziato a girare con i rappresentanti ufficiali, in tutta Italia. Solo che poi attendendo di parlare coi responsabili degli acquisti andavo in giro per il supermercato a fantasticare: non riuscivo ad appassionarmi al lavoro del venditore. Ero spinto da altre passioni. Quando un mio vicino di casa è stato preso dalla scuola di recitazione di Milano mi sono detto: «Lo posso fare anch’io». Ho fatto dei provini, sono stato preso a Milano e Genova, e ho scelto quest’ultima perché era un’ambiente più raccolto… e poi perché era gratuito».
A Genova sei entrato in contatto con i “Cavalli Marci”, straordinario gruppo genovese. Come è avvenuto l’incontro?
«Ho fatto lo Stabile, poi ho iniziato a lavorare al Teatro della Tosse, dove operava anche Claudio “Rufus” Nocera, fondatore dei Cavalli Marci. Lui mi aveva visto in piazza Campetto: il sabato pomeriggio andavo lì a fare il “robot” per tirare su qualche soldo. Mi travestivo e regalavo caramelle ai bambini, divertivo i passanti. Claudio mi ha visto e ha intuito del potenziale. Mi ha detto: «Vieni, portami qualcosa». Io ho portato il primo personaggio che poi ho portato anche in televisione, Fabio Negri in arte “Fatica”, ovvero il ragazzo stordito, che si ammazzava di spinelli. Anche lo stesso personaggio del robot è poi finito in uno sketch dei “Cavalli”».
Nei “Cavalli” hai conosciuto il tuo partner storico, Michelangelo Pulci…
«In realtà era mio compagno di scuola allo Stabile. Artisticamente ci siamo piaciuti da subito, abbiamo vissuto anche insieme. Essendo coinquilini, era una fucina di idee e scambi, a ciclo continuo. Finito lo Stabile lui è andato a Roma per tentare la carriera cinematografica, ma quando sono stato coinvolto nei “Cavalli Marci” ho proposto anche a lui di entrare nel progetto».
Com’era a livello creativo l’ambiente dei “Cavalli”?
«Qualsiasi idea entrava in una vera e propria lavatrice di menti. All’interno di un gruppo così creativo era raro che uno spunto restasse tale e quale. Tu arrivavi con una mezza idea, e dopo un’ora e mezza te la ritrovavi stravolta, ma funzionante. Ad esempio il personaggio dell’insegnante di yoga estremo, che ho portato anche a Colorado Cafè, inizialmente nasceva dall’idea di un verso di un altro personaggio. “Rufus” però mi dice: un tipo così strambo mi aspetto che faccia una cosa del genere. Allora io ho pensato al maestro di musica dello Stabile, che era un tipo particolare, un po’ effeminato. Il tormentone “Cinq, sei, set, ot” nasce da lì, lui ci dava l’attacco così».
La tua comicità è molto basata sul lato fisico, come mai?

«Perché sono alto 1,94, è stato abbastanza naturale. Quando ho visto David Zed al Raffaella Carrà Show da solo davanti allo specchio ho cominciato a imitarlo. Non ho mai fatto una scuola di mimo, ma avevo una gestualità innata. Avendo le leve lunghe sono più espressivo di una persona normale».
Quindi non avevi dei modelli in quel senso, tipo Jim Carrey?
«No, i miei modelli da piccolo erano Jerry Lee Lewis, Charlie Chaplin, Gilberto Govi, che aveva una straordinaria mimica facciale. Naturalmente Alighiero Noschese e Gigi Sabani come imitatori. Erano i comici di quando ero giovane».
Come hai vissuto il passaggio da una dimensione collettiva al lavoro da solista?
«Viene naturale, perché si passa oltre finalmente al compromesso. C’è sempre quella cosa che a te interessa e all’altro no. Ho lavorato in duo con Pulci, poi ho iniziato a sviluppare cose da solo, anche se non si è mai completamente soli, ci si confronta sempre con autori e professionisti. Io in particolare mi rivolgo soprattutto a battutisti. La battuta è il mattone principale della comicità. Anche il personaggio più straordinario del mondo ha bisogno di un testo che lo racconti in maniera divertente».
Scrivi materiale anche da solo?
«Sì, è un lavoro che riesco a fare anche da solo, ma porta veramente tanto… lavoro. Per avere una qualità alta devi prendere una battuta su dieci. Si va a ruota libera, si scrivono pagine e pagine, su 10 battute sei sono da buttare, tre sono buone e una è geniale. Il succo della comicità è la sorpresa, la raggiungi solo con l’allenamento».
Come si gestisce un tritacarne come la tv, che richiede continuamente materiale nuovo?
«Lavorare, lavorare, lavorare… Proporre, stare sempre sul pezzo, avere sempre cose…. Soprattutto sono fondamentali i laboratori, posti dove vai e provi il materiale sul pubblico. Ti faccio un esempio pratico. Sto lavorando su un personaggio, con cui ironizzo sulle frustrazioni del matrimonio. L’ho costruito annotando episodi di vita quotidiana. Lo immaginavo come il tipico “esaurito” interpretato da Alessandro Haber, ma non funzionava. Era drammatico, non comico, la gente non rideva. Funziona perfettamente invece con la rabbia. Nell’”incavolato” ti identifichi. Del resto tanti comici ci hanno giocato, Gioele Dix, Antonio Ornano, Beppe Grillo, Giorgio Verduci…»
Progetti futuri?

«Ho approfittato del lockdown per scrivere lo spettacolo del mio personaggio preferito, il diplomatico Lesc Dubrov, che va in giro a leggere discorsi in lingua. Solo che siccome il traduttore è sottopagato ha tradotto quello che voleva lui. Il titolo è “Il discorso” ed è ovviamente giocato sul fatto che succede tutto quello che non dovrebbe succedere in un discorso ufficiale. Debutto a Genova il 23 gennaio. Sul piccolo schermo ho fatto due puntate di Honolulu con il Tg tra vent’anni. Se ci pensi oggi, al tg abbiamo visto notizie che vent’anni fa sarebbero state incredibili: Donald Trump presidente degli Stati Uniti… Beppe Grillo leader di uno dei maggiori partiti italiani…. Una pandemia mondiale…».
L’agenzia Acd lancia una “mini web serie” con Alessandro Bianchi
“Comunicazione disintegrata” è un format studiato insieme al popolare attore e comico
Una serie di sketch, che svelano in modo divertente i segreti dell’imprenditoria e della comunicazione: è l’idea dell’agenzia monregalese Acd, che si occupa, appunto, di comunicazione in tutte le sue forme. Protagonista di questa nuova web-serie un volto d’eccezione: si tratta di Alessandro Bianchi, popolare attore e comico, personaggio del piccolo schermo. Bianchi interpreta Bobo, l’imprenditore che esorta lo spettatore a utilizzare il... fallimento come mezzo per godersi la vita. Un paradosso che è la chiave comica dei surreali monologhi del Bianchi in versione “bauscia”, un fanfarone che ha capito tutto, che dispensa consigli da spiagge tropicali e attici milionari, ostentando sicurezza, sicumera e successo, soprattutto economico. Insomma, un modello di “guru” che, anche oggi, non si fatica a incontrare davvero, in rete o sui media. Naturalmente però il tratto caratteristico del gioco è che i consigli di Bobo sono esattamente il contrario di quello che dovrebbe essere l’imprenditoria (proprio per questo però a volte rispecchiano la realtà). Questo è “Comunicazione disintegrata”: comunicare male, fallire, e vivere felici. Il tormentone? “La colpa è tua!”, ovvero di chi vive di corsa, pressato dalle scadenze, obnubilato dai problemi. «Non volevamo un semplice spot – commenta Alessandro Casti, fondatore di ACD –, ma una situazione che facesse divertire e riflettere insieme. Bobo è l’opposto del mito dell’uomo di successo, è un perdente, eppure in qualche modo vince. Bobo mette a nudo quello che il filosofo Byung-Chul Han chiama “il soggetto di prestazione”: l’imperativo di riuscire a tutti i costi nella società moderna. Oggi non ci sono barriere, tutto è possibile, facile, arrivabile... quindi se non riesci la colpa è tua, appunto. Questo porta la persona a un vero e proprio autosfruttamento: come scriveva Hannah Arendt, l’iperazione porta a seguire ogni impulso e stimolo senza opporre resistenza. Bobo invece a modo suo resiste. Dietro a Bobo non c’è solo un’educazione ai temi fondamentali della comunicazione (riconoscibilità, strategia, creatività e pianificazione), ma anche la ricerca di una forma umana nel rapporto con il cliente e con il lavoro stesso. Con il sorriso».